Gli scavi archeologici realizzati negli anni tra il
1922 e il 1965, effettuati nelle valli di Comacchio (Ferrara),
portarono in luce un abitato e due necropoli (Valle Trebba e Val
Pega), riconducibili ad un’unica vasta area sepolcrale,
appartenenti alla città di Spina (fine VI e metà III
secolo a.C.) (Manfredi, 2003).
Le finalità del presente
studio, condotto su materiale scheletrico (811 denti) proveniente
dalle necropoli citate, sono quelle di verificare l’eventuale
presenza di carie, traendone indirettamente informazioni sul tipo di
alimentazione che caratterizzava la popolazione dell’antica
città di Spina.
L’analisi della carie è stata
effettuata utilizzando la classificazione proposta da Lukacs (1989).
Dal nostro studio è risultato che il 20% degli Etruschi
esaminati era affetto da carie. Gli adulti, specialmente nella fascia
d’età 25-35 anni, erano significativamente più
colpiti.
Tali lesioni, che hanno riguardato per quasi il 30% i
molari, sono risultate superficiali (grado I) nella maggior parte dei
casi (54,1%), con una localizzazione prevalente sulla superficie
coronale in posizione interprossimale distale.
Non si sono
rilevate differenze significative tra sessi.
La percentuale di
carie rilevata sugli Etruschi di Spina è risultata simile,
anche se inferiore, rispetto a quella rilevata in Italia su altri
campioni di Etruschi (27,0%) (Capasso, 1995).
In conclusione,
dall’incidenza di carie rilevata sul campione di Spina, si può
ipotizzare quanto segue: non vi erano differenze di dieta tra i due
sessi; l’alimentazione di questa popolazione - come confermato
anche da dati archeozoologici e archeologici (Manfredi, 2003) - era
basata su cibi con potere cariogeno più elevato rispetto a
quello di altre popolazioni vissute in Europa (Inghilterra, Grecia e
Francia) durante l’età del Ferro (Brothwell, 1981), per
le quali è riportata un’incidenza di carie che è
circa la metà rispetto a Spina.
Bibliografia
Brothwell
D.R., 1981. Digging up bones. Oxford: Oxford
University Press.
Capasso L., Di Tota G., 1995. Le
malattie infettive degli Etruschi. In: Aspetti della cultura etrusca
di Volterra Etrusca tra l’età del ferro e l’età
ellenistica e contributi della ricerca antropologica alla conoscenza
del popolo etrusco. Atti del XIX convegno di Studi Etruschi ed
Italici. Volterra Firenze: Leo S. Olschki Editore. p 551-557.
Lukacs
J.R., 1989. Dental paleopathology: methods for reconstructing dietary
patterns. In: Iscan M., Kennedy K. editors: Reconstruction of life
from the skeleton. New York: Alan R. Liss. p 261-286.
Manfredi
V.M., Malnati L., 2003. Gli Etruschi in Val Padana. I edizione Oscar
Saggi Mondatori.
Ad oggi sono numerosi gli studi sulla morfologia dei denti decidui nell’uomo, ma ancora scarsa è la bibliografia per quanto riguarda gli studi condotti sulla prima dentizione nelle scimmie antropomorfe. Alcuni ricercatori fanno notare che sono distinguibili nella prima dentizione tratti morfologici primitivi rispetto a quelli analoghi nei denti permanenti. Questa caratteristica potrebbe individuare nei denti decidui dei buoni indicatori della storia evolutiva delle specie. Nel presente studio si cerca di dare una visione generale di quella che è la morfologia dei molari decidui nelle grandi scimmie antropomorfe (generi Pan, Gorilla e Pongo). Sono state prese in considerazione le collezioni che si trovano: nel Museo di Storia Naturale, Università di Firenze e nell’Anthropologisches Institut & Museum, Zurigo (Svizzera). Sono state misurate ed analizzate diverse variabili per quantificare le differenze morfometriche inter- ed intraspecifiche. Tra le variabili prese in considerazione ci sono i diametri, le aree delle cuspidi, e le distanze degli apici delle cuspidi dai margini della corona. Quando possibile, a causa della grandezza del campione, è stato valutato, se presente, il grado di dimorfismo sessuale. Il protocollo utilizzato prevede l’utilizzo delle immagini fotografiche che sebbene non diano informazioni sulla terza dimensione (l’altezza delle cuspidi), rappresentano una buona approssimazione dell’area basale di quella che è la proiezione su un piano di una figura tridimensionale simile al cono. Lo scopo principale del lavoro, oltre a quello di incrementare i risultati già presenti in bibliografia, è quello di quantificare le differenze tra i denti decidui molariformi nelle scimmie antropomorfe come base per successivi studi sull’individuazione e misurazione dei caratteri primitivi analoghi a quelli della dentizione permanente. Anche se le variabili dimensionali considerate permettono una netta distinzione delle tre specie (G. gorilla > P. pygmaeus > P. troglodytes), ciò non è sempre vero per le variabili relative. Bisogna notare, però, che alcune variabili discrete e relative permettono la separazione tra le due specie africane, G. gorilla e P. troglodytes, e quella asiatica, P. pygmaeus. Per quanto riguarda, invece, la distinzione tra i sessi, non sempre è evidente il dimorfismo sessuale, specialmente in P. troglodytes, dove sembra esserci una certa omogeneità morfometrica tra maschi e femmine. Il grado di dimorfismo sessuale potrebbe essere influenzato dalla numerosità del campione che, a volte, è scarsa specialmente in G. gorilla. Sebbene vi siano delle variabili che permettono la distinzione delle tre specie, sembrano necessari ulteriori studi per comprendere la reale differenza morfologica dei molari decidui. L’aumento del numero degli individui nei campioni, l’analisi di variabili metriche diverse da quelle considerate nello studio dei molari permanenti e la considerazione dei caratteri discreti potrebbero portare ad un chiarimento sulle diversità morfologiche nelle grandi scimmie antropomorfe in previsione di futuri studi sugli ominidi fossili e l’uomo moderno.
La cavità carsica
denominata Mora di Cavorso, (nel territorio del comune di Jenne a
Roma, in località Palo Montano, a circa 20 km da Subiaco, sul
versante destro della vallata del fiume Aniene) è stata
individuata durante un sopralluogo condotto dallo SZCS (Shaka Zulu
Club Subiaco) tra il 2001 ed il 2002 all’interno del Parco dei
Monti Simbruini ad una quota di 715 m sul livello del mare. La grotta
di origine carsica, è costituita da un’area esterna
indicata come riparo o antegrotta e da un’area più
interna caratterizzata da una serie di cunicoli e stanze, interessata
da potenti concrezioni stalagmitiche a colonna, dove sono stati
ritrovati resti scheletrici organizzati in due accatastamenti
naturali.
In accordo con la Soprintendenza Archeologica per il
Lazio si è deciso di provvedere alla messa in pianta dei
reperti affioranti ed al loro recupero nel mese di giugno 2006.
I
resti scheletrici umani rinvenuti, costituiti da ossa frammiste e
frammentarie sono stati analizzati al fine di determinare il numero
minimo di individui, il sesso e l’età al momento della
morte. Inoltre, è stata stimata la statura e sono stati
osservati alcuni segni di patologie e di stress occupazionali.
I
reperti fino ad ora analizzati hanno restituito un numero minimo di 9
individui, di cui 5 adulti (1 femmina, 3 maschi e 1 individuo di
sesso indeterminato; età media circa 33 anni), 1 subadulto e
tre bambini (un individuo in età perinatale, uno di circa 2
anni ed un altro di circa 4-5 anni). La statura media stimata è
risultata essere di circa 160 cm nei maschi e di 150 cm nelle
femmine. Le ridotte lunghezze delle ossa lunghe e le piccole
dimensioni delle calotte craniche sono una prova della gracilità
del gruppo preso in esame. Le forme di anemia (Cribra cranii e Cribra
orbitalia) e l’ipoplasia dello smalto suggeriscono carenze
nutrizionali.
È stata inoltre applicata l'analisi degli
isotopi stabili dell'azoto e del carbonio presenti nel collagene
delle ossa per ricostruire la paleodieta degli individui. Questa
analisi permette di chiarire i rapporti e le percentuali degli
alimenti ingeriti, discriminando le popolazioni che si nutrono
prevalentemente di cibo di origine marina da quelle la cui dieta è
soprattutto a base di carne, e ancora distingue il consumo di piante
C3 da quello di piante C4.
Sono stati anche recuperati una tazza
a profilo continuo profondo in impasto non tornito, priva di
decorazioni, diversi frammenti ceramici; una lamella silicea; una
lamella lavorata (trapezio) ed una piccola rondellina ossea levigata,
probabile elemento di una collana. Il materiale archeologico
rinvenuto permette di attribuire, in via preliminare, il sito al
periodo neolitico.
L’applicazione di strumenti ottici attivi quali i
laser scanner 3D per l’acquisizione di dati complessivi del
corpo umano si è recentemente affiancata in campo medico e
forense alla tomografia computerizzata e alla risonanza magnetica
(Thali et al, 2003; Kusnoto et al 2002). Contemporaneamente queste
metodologie hanno aperto nuove possibilità di applicazione e
di ricerca in campo antropologico (Kahler et al, 2003; Tobias, 2001).
Al pari della tecnica fotogrammetrica, l’uso di questi
strumenti attivi consente di rilevare dati oggettivi in maniera non
invasiva, garantendo nel contempo una acquisizione del dato
tridimensionale più rapida rispetto alla prima (Guidi,
Beraldin, 2004).
Le superfici del reperto, riprese da diverse
angolazioni, vengono successivamente assemblate attraverso un
processo definito da una sequenza di fasi codificate (Bernardini,
Rushmeier, 2002): I allineamento delle scansioni acquisite con lo
strumento, in modo da ricostruire l’esatta geometria del
reperto in ambiente digitale; II fusione delle riprese digitali in
un’unica superficie poligonale (prima rappresentazione digitale
dell’oggetto acquisito); III modifica della superficie con
eliminazione di eventuali imperfezioni presenti nel modello digitale
acquisito.
Nel campo della Paleoantropologia, dove sono
fondamentali recupero, restauro, conservazione e catalogazione di
reperti, queste nuove metodiche di scansione possono svolgere
un’azione determinante in ognuna di queste fasi contribuendo
anche ad un’eventuale valorizzazione del reperto sia in ambito
divulgativo-museale che scientifico.
Nel presente studio si sono
voluti verificare limiti e possibilità offerti dalle nuove
metodiche nell’analisi del reperto digitalizzato e la
successiva possibilità di applicazione di tecniche utili per
l’esecuzione di restauro e rilevazione metrica in ambiente
digitale su reperti scheletrici umani di epoca medievale utilizzando
un laser scanner 3D a triangolazione Minolta Vivid 910 (tempo di
scansione 3 sec). Le principali fasi operative nella digitalizzazione
dell’oggetto reale, il trattamento del dato tridimensionale e
le potenzialità offerte dalle simulazioni in ambiente digitale
del materiale osteologico vengono esaminate e discusse.
Bibliografia
M.J. Thali, M Braun,
R. Dirnhofer Optical 3D surface digitizing in forensic medicine:3D
documentation of skin and bone injuries. J. Forensic Sci. 137 (2003)
203–208.
K. Kahler, J. Haber, Seidel H.P. Reanimating the
dead: Reconstruction of expressive faces from skull data. ACM
Transaction on Graphics (TOG). Vol 22 (3) (2003) 554-561.
P.V.
Tobias. Re-creating ancient hominid virtual endocasts by CT-
scanning. Clinical Anatomy 14 (2001) 134-141.
B.Kusnoto, C.A.
Evans . Reliability of a 3D surface laser scanner for orthodontic
applications. American Journal of Orthodontic and Dentofacial
Orthopedics. Vol 122 (4) (2002), 342-348.
F.Bernardini,
H.Rushmeier, The 3D Model Acquisition Pipeline, Computer Graphics
Forum, NCC Blackwell, Vol. 21(2), pp. 149-17, 2002.
G.Guidi,
J-A.Beraldin, Acquisizione 3D e modellazione poligonale. Dall’oggetto
fisico al suo calco digitale, ed Poli.Design, Milano, 2004.
Contenuto
e scopo della ricerca
L’attuale indagine paleoantropologica
intende fornire un contributo alle ricerche archeologiche condotte
sul territorio di Modica (Ragusa), in contrada Treppiedi (Di Stefano,
1993-94; Rizzone, Sammito, 2001), al fine di individuare le
principali caratteristiche della comunità.
L’area
archeologica, già nota in letteratura per opera delle grandi
scoperte di Paolo Orsi (1896 - 1915), consta di un piccolo ipogeo, di
un edificio rurale e di una vasta area sepolcrale sub-divo dalla
quale, durante le campagne di scavo condotte nel 1985-89 dalla
Soprintendenza dei Beni Culturali e Ambientali di Ragusa, sono emerse
74 sepolture.
Si tratta di tombe a fossa ricavate nel banco
roccioso e di tombe costruite con lastre di calcare locale, coperte
con scaglie lapidee fortemente cementate. Il corredo, abbastanza
povero, è caratterizzato soprattutto da oggetti di manifattura
comune, bicchieri in vetro e ornamenti personali (pendenti in filo
d’oro, fibbie ed anelli), che datano il sito dal III al V
secolo d.C.
Materiali
e metodi
Del campione osteologico in esame, vengono presentati i
primi risultati paleodemografici, paleonutrizionali e
paleopatologici. La metodologia utilizzata per l’inquadramento
paleodemografico si basa sulla costruzione di tavole di mortalità,
realizzate secondo le metodiche di Halley. Per la determinazione
degli elementi chimici (Ca, Zn, Sr) nei distretti scheletrici viene
impiegata la Spettroscopia ad Assorbimento Atomico ed infine per il
rilievo delle varie patologie, apprezzabili macroscopicamente, sono
state consultate metodologie standard. Il campione è
costituito da 120 inumati: 28 tra infantes e bambini, 12 adolescenti
e 80 adulti, di cui 44 maschi, 32 femmine e 4 di sesso non
determinabile per il pessimo stato di conservazione. Sei individui
erano deposti all’interno dell’ipogeo ed i restanti 114
all’interno di 57 sepolture non violate dell’intera
necropoli sub-divo.
Bibliografia
Bartoli F. 1995. La
paleodieta: un ulteriore informazione sulle abitudini di vita dei
gruppi umani antichi in Miscellanea in memoria di Giuliano Cremonesi,
Dipartimento di Scienze Archeologiche dell’università di
Pisa, ETS: 447-457.
Di Stefano G. 1993-94. Scavi e ricerche a
Camarina e nel Ragusano (1988-92) in Kokalos XXXIX – XL, tomo
II 2: 1406 -1421.
Mallegni F., Rubini M. 1994. Recupero dei
materiali scheletrici umani in archeologia. CISU, Roma.
Rizzone
V., Sammito A.M. 1998. Modica, un bilancio preliminare delle ricerche
archeologiche, in AA. VV. Archeologia urbana e centri storici negli
iblei, Ragusa: 15-26.
Rizzone V., Sammito A.M. 2001. Modica ed il
suo territorio nella tarda antichità in Archivium Historicum
Mothycense 7: 5 – 152.
Questo lavoro si propone di indagare lo stato di salute
e la qualità della vita nel suburbio romano durante l’età
imperiale, attraverso l’analisi delle principali affezioni che
colpiscono denti ed alveoli.
La ricerca ha riguardato resti
scheletrici umani provenienti da una vasta area funeraria localizzata
lungo l’antico tracciato della Via Latina, in località
Osteria del Curato (Roma).
Tra le oltre 700 sepolture ad
inumazione, rinvenute in diversi nuclei di necropoli romane datate
tra il I ed il III sec. d.C., sono stati selezionati 167 individui
con età superiore a 16 anni e con denti ed alveoli
sufficientemente intatti.
Sono stati rilevati: carie, tartaro,
usura dentaria, riassorbimento alveolare, ascessi apicali, perdite
dentarie in vita ed ipoplasia dello smalto.
Risultati
La
frequenza di denti cariati in rapporto ai denti osservati è
relativamente bassa mentre la diffusione all’interno della
popolazione raggiunge il 70% di individui colpiti, con una frequenza
leggermente più alta tra le donne rispetto agli uomini.
La
diffusione del tartaro all’interno della popolazione è
piuttosto elevata, infatti, l’88% degli individui osservati ha
almeno tre denti con depositi di tartaro.
La distribuzione
dell’usura dentaria nei diversi gradi di espressione indica che
la maggior parte dei denti sono poco usurati, i denti anteriori
presentano generalmente un’usura più forte dei
posteriori. In alcuni casi sono state evidenziate tracce di usura
potenzialmente dovute ad attività non alimentari svolte con la
dentatura.
Le alterazioni che colpiscono i margini alveolari
provocandone il riassorbimento sono state rilevate nel 73% della
popolazione, per lo più in forma lieve. Tra gli uomini sono
maggiormente diffuse ed in forma più grave, rispetto alle
donne.
Gli ascessi localizzati all’apice degli alveoli sono
diffusi nel 26% della popolazione, con una leggera preferenza per gli
uomini rispetto alle donne.
I denti perduti durante la vita
presentano frequenze piuttosto basse in entrambi i sessi: meno della
metà degli individui aveva perso denti durante la vita, con
una frequenza maggiore tra gli uomini rispetto alle donne.
I
difetti ipoplasici, prevalentemente di lieve entità, sono
stati osservati in circa la metà dei denti esaminati, ma la
diffusione nella popolazione supera il 90% di individui affetti, con
maggior frequenza tra gli uomini.
Conclusioni
La maggior
parte delle affezioni che colpiscono denti ed alveoli hanno frequenze
relative piuttosto basse, benché spesso siano largamente
diffuse nella popolazione. Tra i due sessi non sussistono molte
differenze, ma in generale gli uomini sono più colpiti delle
donne.
La distribuzione delle frequenze delle diverse affezioni
sembra suggerire una relazione tra cattiva igiene orale e diffusione
delle patologie, piuttosto che con uno specifico modello alimentare.
L’ampia diffusione dell’ipoplasia dello smalto, anche se
con episodi di lieve entità, suggerisce una scarsa qualità
della vita con condizioni di salute non ottimali, anche se non
pessime.
Confronti con altri campioni romani di epoca imperiale
indicano una certa omogeneità con le popolazioni ad economia
agricolo-pastorale.
Gli autori presentano una ampia casistica di esempi di resti umani antichi sottoposti a processi di disinfezione e di conservazione di lunga durate ricaduti sotto l’osservazione del Servizio Tecnico per le Ricerche Antropologiche del Ministero dei Beni Culturali dal 1992 al 2000 e, in seguito, della Sezione di Antropologia della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università statale “G. d’Annunzio” di Chieti e Pescara. Si tratta prevalentemente di resti scheletrici umani antichi e, subordinatamente, di resti umani mummificati. Molti di questi resti rappresentano Reliquie di Santi, cioè resti biologici di persone vissute generalmente molti secoli or sono, che hanno la peculiarità di essere perfettamente documentati, cioè possono essere riferiti a persone delle quali si conoscono sesso, età al momento della morte, epoca della morte e, talora, anche attività professionale e storia della vita. La conservazione di questi resti richiede, da parte dei committenti, una particolare attenzione e, soprattutto, richiede una garanzia di lunga durata. Pertanto il nostro gruppo di lavoro ha messo a punto alcune metodiche specifiche che tendono a mettere in atto la seguente procedura generale: (1) accertamento delle condizioni di conservazione dei resti, con speciale riferimento alla presenza di inquinanti organici, di contaminazioni viventi e di inquinanti inorganici, (2) disinfezione dei resti, prevalentemente con agenti gassosi che hanno la possibilità di penetrare fin nelle più recondite anfrattuosità dei reperti, (3) realizzazione di un microclima controllato, con speciale riferimento al basso tenore di umidità ed alla sterilità microbiologica, (4) realizzazione di contenitori a tenuta stagna, per evitare nuove contaminazioni future e per mantenere in equilibrio biologico e chimico i resti umani antichi, anche per periodi di lunga durata. Le maggiori difficoltà nella realizzazione di queste procedure sono state individuate nei seguenti punti critici: (1) elevatissima tossicità delle sostanze disinfettanti, (2) criticità dell’uso di sostanze allo stato gassoso, (3) produzione di manufatti unici a tenuta realmente stagna, (4) necessità di manufatti a bassa o nulla manutenzione per tempi lunghi, (4) lunghissime durate dell’utenza, (5) trasparenza alla luce dei contenitori, (6) sicurezza dei contenitori, soprattutto in relazione alla possibilità di atti vandalici, (7) controllo della stabilità del microclima, (8) interazione con la luminosità ambientale. Gli autori offriranno una ampia discussione sia sui dettagli delle metodiche adottate sia sulle relative criticità dei sistemi tecnologici e dei protocolli procedurali, prendendo spunto da decine di esempi pratici che hanno riguardato negli anni scorsi resti umani antichi da noi sottoposti a procedure conservative.
È largamente accettato che la fascia costiera
nord-mediterranea comprende alcune tra le regioni chiave per
ricostruire le vicende incentrate attorno al limite Paleolitico medio
– Paleolitico superiore e alla diffusione degli uomini
anatomicamente moderni in Europa. L’attraversamento di questa
cruciale soglia bio-culturale comportò un insieme di processi
connessi con la biogeografia degli ultimi neandertaliani e la rapida
diffusione del Proto-Aurignaziano e dell’Aurignaziano, dando
origine a un variegato scenario dove alcuni complessi culturali
documentano l’ultima, marcata evoluzione dei nostri estinti
“cugini” nell’intervallo 50-30 ky B.P. Questo
periodo conobbe una “fioritura” di quelli che vengono
oramai considerati dei comportamenti “moderni”, emersi in
vari luoghi da realtà locali. Tra le evidenze più
intriganti si ricordano la distribuzione finitima di alcuni di questi
complessi culturali come l’Uluzziano, o la discussa ritardata
occupazione del sud-est iberico da parte di Homo sapiens. Il ruolo
delle penisole, definito dalla loro geografia “vincolante”
e dalla distribuzione critica delle risorse alimentari con tracciati
ben definiti e relativamente isolati estremi, emerge con forza a
supportare l’esame di presupposte migrazioni, rifugi e
possibili interazioni tra popolazioni. Le datazioni al radiocarbonio
riferibili a questi contesti risentono delle grandi fluttuazioni di
14C avvenute nel periodo in questione e manifestano evidenti limiti
di attendibilità. Le marcate oscillazioni climatiche
riscontrate durante dell’OIS 3 influenzano le strategie di
sussistenza e la mobilità dei gruppi: gli uomini
anatomicamente moderni probabilmente approfittano di alcuni periodi
di relativa stabilità climatica per entrare in Europa, dove
palesano un bagaglio culturale forte e ben radicato, risultato di una
serie di innovazioni abbozzate qualche decina di migliaia di anni
prima in Africa. La pressoché totale mancanza di resti umani
dei primi uomini moderni nel sud dell’Europa si rapporta ad un
buon numero di ritrovamenti di neandertaliani, concentrati in
particolar modo in alcune grotte, per i quali è stato
possibile risalire a diverse modalità di trattamento dei
defunti.
In questo contributo, gli autori valutano i vari fattori
e le relative dinamiche riguardanti le possibili interazioni tra
popolazioni, considerandone le implicazioni genetiche, biogeografiche
cronologiche, non supportate né da evidenze che attestano
contatti, scambi o relazioni tra musteriani, aurignaziani e
uluzziani, né interstratificazioni tra diversi livelli
culturali.
Il sito preistorico di Grotta d’Oriente
(Favignana) è oggetto di crescente attenzione da parte degli
studiosi di varie discipline. La datazione con metodi assoluti del
sito indica che la frequentazione umana si colloca tra la fine del
paleolitico superiore ed il mesolitico. Nel sito sono state infatti
rinvenute tre sepolture, Oriente A (OA)e Oriente C (OC) attribuibili
al paleolitico superiore ed in particolare all’epigravettiano
finale. Oriente B (OB) è una sepoltura mesolitica.
Il
presente lavoro analizza i resti scheletrici di Oriente A e B con
metodi antroposcopici, morfometrici, archeometrici e molecolari.
Particolare attenzione è stata rivolta alla definizione della
paleo-ecologia del sito deducibile dalle analisi isotopiche. Il
reperto Oriente B è stato inoltre genotipizzato mediante
metodiche di analisi aDNA.
Il lavoro si inquadra nel progetto di
costruzione di un network di informazioni antropologiche sul primo
popolamento della Sicilia occidentale.
Materiali e
metodi
Sepoltura “OA”: è rappresentata da pochi
resti cranici e da una mandibola incompleta.
Sepoltura “OB”:
consiste in uno scheletro ben rappresentato nei diversi distretti.
La
malacofauna in stretta associazione è stata esaminata sia per
la datazione, mediante acceleratore AMS, che per la composizione
isotopica dell’ossigeno.
Relativamente alla
caratterizzazione genetica è stata tipizzata la porzione
ipervariabile HVR-I del mtDNA da un frammento di vertebra lombare di
OB. A questo proposito quanti hanno lavorato con il reperto sono
stati analogamente tipizzati.
Risultati e discussione
OA-
il cranio si presenta ovoide e dolicocranico; con profilo frontale
inclinato e fronte di media larghezza; le arcate sopraciliari sono
pronunciate e le orbite mesoconche. Il mento ha rilievo basale
sporgente. OB- il cranio è ovopentagonoide,
meso/orto/metriocranico ed aristencefalo. Relativamente al facciale
il reperto è mesognato, subfenozigo, euriprosopo, eurieno con
fronte stenometopa e orbite mesoconche. Le ossa postcraniali mostrano
livelli medi di robustezza scheletrica. Dai rilievi sulla pelvi il
reperto è riferibile ad una donna adulta.
Un’analisi
morfometrica comparativa condotta mediante tecniche multivariate e
basata sui caratteri metrici del cranio indica per OB somiglianze con
altri mesolitici siciliani quali gli individui n. 1, 2, 6 e 9 dalla
Grotta dell’Uzzo, nonché con il reperto n. 8 dalla
Grotta del Romito in Calabria, datato all’Epigravettiano
finale.
La datazione al radiocarbonio AMS colloca il reperto di
O. turbinatus associato ad OB a 8159±37 anni fa (8740-8390,
calibrata Marine04 e corretta per la variazione dovuta all’effetto
serbatoio ΔR=71±50). I dati dell’analisi isotopica
relativi alle faune suggeriscono una frequentazione saltuaria della
grotta, stagionale e possibilmente legata ai riti inumativi.
L’Ipogeo degli Avori presso Trinitapoli (Foggia)
consiste in una tomba a camera sotterranea risalente alla media età
del Bronzo con deposizioni plurime, dilazionate nel tempo, come
tipico di questa fase archeologica in Puglia e simile al vicinissimo
e in larga parte contemporaneo Ipogeo dei Bronzi. Questi due ipogei
si inseriscono in un’area caratterizzata da numerose altre
strutture, superficiali e sotterranee, a carattere cultuale e
funerario, a testimonianza di concentrazione di complesse attività
rituali; inoltre, la stessa compresenza di due ipogei coevi
suggerisce che una pluralità di nuclei di parentela fossero
coinvolti nella gestione del luogo.
Lo studio tafonomico
dell’Ipogeo degli Avori rappresenta il primo passo necessario
per un più approfondito studio paleobiologico e si presenta
complesso, sia in virtù della estensione dell’area
interessata, sia per la numerosità dei resti umani ivi
recuperati. Questo studio intende infatti ricostruire, ove possibile,
se vi sia stato ad opera degli stessi fruitori dell’ipogeo uno
spostamento di ossa, al fine di creare nuovi spazi per altri corpi,
se via stata selezione preferenziale nello spostamento di specifici
segmenti corporei, e se sia possibile identificare delle
associazioni, anche labili, tra corredo e individui.
A livello di
scavo si è provveduto alla creazione di rilievi a contatto in
scala 1:1 che sono stati trasposti in formato numerico e gestiti con
un sistema di Geographic Information System (GIS). Dal punto di vista
dell’analisi antropologica, data l’estensione dell’area
da studiare, è stata scelta inizialmente una singola unità
stratigrafica, la US51, molto ricca di elementi ossei. Il numero
minimo di individui pertinenti l’US è stato stimato
sulla base della frequenza numerica più alta con cui è
rappresentato ogni singolo elemento anatomico. Per l’iniziale
riconoscimento delle individualità, che non fossero già
state segnalate a livello di scavo e prelievo iniziale, si è
provveduto a identificare sul GIS vicinanze spaziali o addirittura
connessioni che fossero anche compatibili per diagnosi di età
alla morte, sesso se possibile, dimensioni e morfologia. Si è
poi provveduto alla ricerca e successiva localizzazione spaziale di
possibili coppie di segmenti ossei controlaterali che fossero
compatibili per dimensione, robustezza, segni diagnostici.
L’analisi
tafonomica dell’ipogeo suggerisce un sistema di rimescolamento
caotico, successivo alla scheletrizzazione, che non può
unicamente essere imputato a fenomeni casuali. Non risultano
significative segregazioni volontarie di segmenti omologhi, ed è
ipotizzabile un sistema di asportazione e ricollocamento parziale
degli individui che risultano dispersi entro uno spazio verticale ed
orizzontale significativo. Conseguenza di questa evidenza, che dovrà
essere verificata per le altre unità stratigrafiche del
deposito, è l’impossibilità attuale di
riconoscere l’associazione tra individui ed elementi di corredo
che probabilmente perdevano già in antico il legame di
vicinanza spaziale con i destinatari dell’offerta funebre.
Lo scopo del lavoro è quello di presentare i
risultati preliminari del progetto di ricerca sulla collezione
neandertaliana di Krapina (Croazia, 130.000 a.). Questo progetto
prevede lo studio di indicatori scheletrici di attività
(entesi, entesopatie, modificazioni articolari), paleopatologici, di
età ed alterazioni dento-alveolari al fine di ricostruire
abitudini e stile di vita di questi ominidi. Per la rilevazione di
questi caratteri vengono utilizzati metodi standardizzati messi a
punto dal nostro gruppo di ricerca su collezioni scheletriche
italiane moderne identificate (età, sesso, occupazione, causa
di morte, ecc.). Questo approccio permette di ottenere dati omogenei
e confrontabili.
Sono state inoltre riesaminate le lesioni (tagli,
fratture) riconducibili a pratiche legate al trattamento del cadavere
o dello scheletro. Per l'osservazione di tali lesioni è stata
utilizzata la tecnica stereomiscroscopica confrontando i risultati
con quanto già osservato nel corso dello studio della
collezione epipaleolitica di Taforalt (Marocco, 12 000–11 000
a.; Istituto di Paleontologia Umana, Parigi) e del campione di sei
scheletri maschili sudafricani donati dal Prof. Raymond Dart al Prof.
Fabio Frassetto, primo direttore dell'Istituto di Antropologia
dell'Università di Bologna.
Per quanto riguarda lo studio
delle entesi, emerge la presenza di caratteri che non rientrano nella
variabilità dell'uomo moderno e che possono avere notevole
interesse nella definizione di caratteri specificamente
neandertaliani. Lo studio dei denti ha messo in evidenza l'assenza di
carie e l'elevata frequenza di fratture che forniscono nuove ed utili
informazioni circa comportamenti alimentari e non alimentari di
questi Naendertaliani.
Infine lo studio delle lesioni peri e/o
post mortem sembra attestare comportamenti intenzionali probabilmente
legati a pratiche o rituali funerari.
Gli studi complessivi sulla filogenesi del genere Homo sono poco numerosi se confrontati al numero altissimo di pubblicazioni che hanno come oggetto la descrizione e/o l'attribuzione tassonomica di uno o più reperti oppure l'evoluzione di particolari complessi anatomici. Vengono analizzati e discussi i più recenti modelli evolutivi del genere Homo, indicando, inoltre, le possibili linee di sviluppo dell'analisi filogenetica.
La successione continentale del tardo Pleistocene
inferiore del bacino sedimentario di Buia, nella Dancalia eritrea, ha
preservato una ricca documentazione di interesse paleontologico,
paleoantropologico ed archeologico. Dal 1995, le indagini di terreno
e lo studio dei reperti sono condotti nell’ambito del “Progetto
Buia” coordinato dall’Università di Firenze e dal
Museo Nazionale Eritreo di Asmara, al quale contribuiscono diversi
gruppi di ricerca italiani ed esteri.
Oltre alla presenza di
numerosi siti ben preservati, le ricerche di terreno hanno permesso
la scoperta di diversi resti umani fossili craniali, dentari e
post-craniali presso un unico affioramento identificato nello Uadi
Aalad. Nel contesto della successione di Buia, il livello
stratigrafico contenente tali reperti è stato datato a circa 1
milione di anni da oggi (paleomagnetismo e biocronologia). I fossili
umani includono: un cranio completo anche della porzione facciale
(UA-31); due denti permanenti (UA-222 e UA-369); tre elementi di
bacino (UA-173, UA-405 e UA-466). Nel marzo del 2007 sono stati
recuperati due ulteriori frammenti ossei, tuttora in attesa di
restauro, probabilmente pertinenti il cranio.
In UA-31, la
porzione neurocraniale è particolarmente allungata e piuttosto
stretta, ma anche proporzionalmente ben verticalizzata. Il volume
endocranico è di 995 cc (misura diretta). Il toro
sopraorbitario è sviluppato sia in senso antero-posteriore,
sia verticale; posteriormente, l’opistocranion e l’inion
coincidono. La larghezza massima del reperto è rilevabile
attraverso le ossa temporali, a livello delle creste sopramastoidee.
Tuttavia, si osservano anche una modesta protrusione laterale del
complesso auricolo-mastoideo-sopramastoideo, un posizionamento più
elevato del punto di massima salienza dei parietali e, soprattutto,
un profilo coronale a pareti laterali sub-parallele, non divergenti
verso il basso. Lo splancnocranio mostra un forte sviluppo verticale
e laterale della porzione zigomo-mascellare, che ospita un seno
voluminoso. Il valore dell’altezza del mascellare è
probabilmente il più elevato riscontrato ad oggi tra i reperti
africani del Pleistocene inferiore e inferiore-medio. L’orbita
di sinistra, particolarmente alta e proporzionalmente stretta, con
margine spesso, è intatta, anche nelle sue porzioni interne
più fragili. La sua cavità è molto profonda ed
il risultante volume di 37 cc si colloca ben al di sopra
dell’intervallo di variabilità conosciuto per l’umanità
recente. Le analisi comparative (cladistiche e metriche) mostrano
che, nel contesto del registro paleoantropologico africano, UA-31
tende a caratterizzarsi sia rispetto ai reperti del Pleistocene
inferiore (e.g., ER 3733, OH 9), sia a quelli sub-coevi (Daka, OL
45500) o delle prime fasi del Pleistocene medio (OH 12).
I reperti
dal bacino di Buia, che nel loro complesso riempiono un importante
vuoto cronologico nella documentazione paleoantropologica africana,
testimoniano l’elevato tasso di variabilità morfologica
e dimensionale che caratterizzava l’umanità intorno ad
un milione di anni fa.
La Sicilia è nota per essere la regione con il
più elevato numero di collezioni mummiologiche. Esse sono
ubicate in varie aree dell’isola, ma la più alta
concentrazione si trova nella sua porzione nord-orientale (Provincia
di Messina) (Piombino-Mascali, 2006). La conservazione dei corpi in
questione è generalmente il risultato di una pratica funeraria
denominata "scolatura", che prevedeva la collocazione dei
corpi in strutture architettoniche atte a favorire il drenaggio dei
liquami cadaverici, e - qualora associata a condizioni climatiche ed
ambientali favorevoli - consentiva l’essiccazione naturale dei
tessuti molli (Fornaciari, 1995). Tuttavia, non mancano esemplari
conservati artificialmente, attraverso l’eviscerazione delle
cavità corporee o l’iniezione endovena di sostanze
chimiche (Marinozzi e Fornaciari, 2005). A completamento dell’opera
di catalogazione delle suddette serie, il Dipartimento di Biologia
dell’Università di Pisa, in collaborazione con
ricercatori dell'EURAC di Bolzano e delle Università di
Monaco, di Zurigo e del Minnesota, ha avviato ricerche sistematiche
relative a ben dodici siti. Il “Progetto Cappuccini” si
propone di effettuare un’indagine multidisciplinare
comprendente aspetti storico-documentari, archeologici,
antropologici, paleopatologici, paleogenetici e paleonutrizionali di
parte della società siciliana vissuta tra il XVII ed il XX
secolo. Il presente contributo fornisce i risultati preliminari
dell’indagine delle mummie di Savoca, collezione
precedentemente ispezionata dal Prof. Renato Grilletto sotto
l'impulso della locale Soprintendenza BB. CC. AA.
Enti
Patrocinanti: Provincia di Messina, Comune di
Messina.
Bibliografia:
Fornaciari G. 1995. Mummie
naturali ed artificiali in Italia (XIII-XIX secolo). Miscellanea in
memoria di Giuliano Cremonesi. A cura del Dipartimento di Scienze
Archeologiche dell'Università di Pisa. Edizioni ETS, Pisa:
459-480.
Marinozzi S, Fornaciari G. 2005. Le Mummie e l'Arte
Medica nell'Evo Moderno. Medicina nei Secoli, Supplemento
1.
Piombino-Mascali D. 2006. Mummies from
north-east Sicily: a survey. Paleopathology Newsletter, 135:
22-29.
In ambito paleoantropologico i denti rivestono un ruolo
fondamentale ai fini della sistematica evolutiva umana poiché
ciascuna specie presenta denti con caratteristiche morfologiche e
morfometriche peculiari. L’approccio tradizionale allo studio
dei denti prevede una descrizione morfologica del campione in esame e
un’analisi morfometrica limitata solitamente alla rilevazione,
tramite un calibro, dei due diametri fondamentali (bucco-linguale e
mesio-distale).
Per far fronte alle limitate informazioni
ricavabili da questi due diametri, alcuni ricercatori hanno fatto
ricorso all’analisi d’immagine 2D nonché
all’analisi di modelli digitali 3D dei denti, ma allo stato
attuale delle ricerche mancano procedure standard di orientamento e
metodologie di analisi dentali valide anche in presenza di denti
usurati.
A questo proposito viene qui presentata una nuova
metodologia di analisi tridimensionale dei primi molari (superiore e
inferiore), che prevede la standardizzazione di un sistema di
orientamento e la definizione di un sistema accurato di confronto.
Per ciascuna delle due tipologie di molari è stato proposto un
sistema di orientamento che risponde ad un criterio geometrico,
basato su 3 punti individuati sulla linea cervicale. Il metodo di
analisi morfometrica dei denti, così orientati, prevede la
esecuzione di sezioni virtuali della corona dentale a livello dei
primi 4 mm a partire dalla linea cervicale. Questo metodo, la cui
validità è stata saggiata su campioni di denti
appartenenti all’uomo moderno e all’uomo di Neandertal,
con l’ausilio dell’analisi delle componenti principali e
dell’analisi discriminante, consente di separare correttamente
i denti appartenenti ai diversi taxa e ha permesso di classificare
due esemplari del Paleolitico medio di incerta attribuzione
sistematica. Il metodo, oltre che basarsi su un criterio oggettivo di
confronto, conserva il suo potere di discriminazione tassonomica
anche quando la corona, per effetto dell’usura, è
ridotta a soli 3 mm di altezza, ma anche nel caso in cui essa si
abbassi ad un solo millimetro, i risultati si sono rivelati ancora
soddisfacenti.
L’ampliamento del campione di molari primi
di interesse paleoantropologico, che ci si propone di realizzare con
l’aggiunta di altri esemplari, renderà possibile,
attraverso il metodo da noi elaborato, quantificare la variabilità
morfometrica di denti appartenenti ai diversi taxa e classificare
quelli di dubbia attribuzione o che verranno scoperti in futuro. Allo
stesso tempo questo studio pilota fornisce le linee guida per
estendere la nuova metodologia di analisi alle altre tipologie
dentali.
Tempi e modi del primo popolamento umano sono al centro
di un acceso dibattito internazionale che non smette di rinvigorirsi
grazie alla scoperta incessante di nuove evidenze che fanno
retrodatare il primo popolamento del bacino mediterraneo ad epoche
sempre più arcaiche.
Allo stato attuale delle conoscenze,
le più antiche evidenze del popolamento umano europeo
risalgono a circa 1,5 milioni di anni fa e provengono dal sito di
Pirro Nord (Apricena, Foggia) (Arzarello et al., 2007) caratterizzato
da una associazione faunistica villafranchiana.
In successione
cronologica intorno a 1,2 milioni di anni incontriamo i giacimenti
spagnoli di Fuente Nueva-3 e Barranco Léon (Martinez-Navarro
et al., 1997) che hanno restituito faune e consistenti industrie
litiche. A questi ultimi seguono gli insediamenti di Le Vallonet in
Francia (de Lumley et al., 1988) e di Monte Poggiolo in Italia
(Peretto et al., 1998), entrambi risalenti a circa un milione di anni
fa. Altri siti cronologicamente della stessa data sono comunque stati
identificati sul continente europeo offrendo l’impressione di
un primo popolamento del nostro continente non sporadico, quanto
piuttosto consistente e diffuso.
I più antichi resti
paleantropologici del bacino mediterraneo non sono più antichi
di 800-700 mila anni fa; si tratta dei resti rinvenuti alla Gran
Dolina della Sierra di Atapuerca in Spagna (Homo antecessor) e di
Ceprano nel Lazio (Homo cepranensis).
Tutti i siti sopra citati si
accomunano per un comportamento tecnico opportunista nella produzione
di supporti a margini taglienti (schegge) utilizzati prevalentemente
nel trattamento delle carcasse animali, come dimostrano in
particolare gli studi sulle usure dei reperti litici sul già
citato insediamento di Monte Poggiolo.
Bibliografia
Arzarello
M, Marcolini F, Pavia G, Pavia M, Petronio C, Petrucci M, Rook L, and
Sardella R. 2007. Evidence of Earliest Human
occurrence in Europe: the site of Pirro Nord (Southern Italy). Naturwissenschaften, 94:107-112.
De
Lumley H, Fournier A, Krzepkowska J and Echassoux A. 1988.
L'industrie du Plèistocène Inférieur de la
Grotte du Vallonet, Roquebrune-Cap-Martin, Alpes-Maritimes.
L'Anthropologie, 92:501-614.
Martìnez-Navarro B, Turq
A, Ballester JA and Oms O. 1997. Fuente
Nueva-3 (Orce, Granada, Spain) and the first Human Occupation of
Europe. Journal of Human Evolution, 33:611-620.
Peretto C,
Amore O, Antoniazzi A, Bahain JJ, Cattani L, Cavallini E, Esposito P,
Falguères C, Hedley C, Laurent I, Le Breton V, Longo L,
Milliken S, Monegatti P, Ollé A, Pugliese A, Renault-Miskosky
J, Sozzi M, Ungaro S, Vannucci S, Vergés JM, Wagner JJ and
Yokoyama Y. 1998. L'industrie lithique de
Cà Belvedere I Monte Poggiolo: stratigraphie, matière
première, typologie, remontage et traces d’utilisation. L'Anthropologie, 102:343-466.
Mirata a risolvere quesiti di tipo bioculturale, la
Bioarcheologia Umana è divenuta una disciplina fondamentale
per una più completa comprensione delle vite di gruppi umani
estinti. La sua nascita tra le scienze naturali, la successiva
integrazione con le discipline storico-documentarie e l'aspetto
socio-comportamentale conferitole dalla scuola anglofona fanno della
mulitidisciplinarietà la sua caratteristica saliente (Larsen,
1997; 2002). Tuttavia, tale ambito di ricerca non è privo di
problematiche teoretiche e metodologiche, in particolar modo nel caso
di popolazioni preistoriche, per le quali le informazioni in nostro
possesso non risultano complete e soddisfacenti (Wood et al., 1992).
Fattori estrinseci ed intrinseci giocano un ruolo cruciale nel
limitare le interpretazioni del bioarcheologo, e le conclusioni
tratte dalle indagini non sempre restituiscono un'immagine del
passato coerente con la realtà dei fatti.
Il presente
contributo fornisce una rassegna della letteratura sull’argomento,
delinea la storia e lo sviluppo della Bioarcheologia Umana, estrapola
le maggiori problematiche che si incontrano nello studio contestuale
dei resti umani ed infine evidenzia i progressi che i ricercatori
hanno compiuto nell’ambito di ricerca in
questione.
Bibliografia
Larsen C.S., 1997. Bioarchaeology. Interpreting behaviour from the
human skeleton. Cambridge University Press: Cambridge.
Larsen
C.S., 2002. Bioarchaeology: The Lives and Lifestyles of Past People.
Journ. Archaeol. Res. 10, 2: 119-166.
Wood J.W., Milner G.R.,
Harpending H.C., Weiss K.M., 1992. The osteological paradox: problems
of inferring prehistoric health from skeletal samples. Curr.
Anthrop., 33: 343-370.
Le indicazioni ministeriali per la preparazione delle attività didattiche delle Scuole Primarie e Secondarie prevedono esplicitamente la trattazione dell’origine ed evoluzione dell’uomo e la collocazione dell’evoluzione umana all’interno di un più ampio contesto storico, paleontologico e paleoambientale. Attualmente, la preistoria viene affrontata nel corso del terzo anno della Scuola Primaria nell’ambito dei programmi di Storia e Scienze. Gli interventi dei docenti prevedono la trattazione di aspetti di Antropologia fisica con l’illustrazione delle caratteristiche anatomiche delle specie di primati strettamente correlate all’evoluzione umana e la descrizione dell’origine e dello sviluppo della tecnologia umana basata sulla lavorazione della pietra. Parallelamente, si tratta delle forme di economia preistorica che possono essere dedotte sulla base della documentazione archeologica e dell’origine di comportamenti astratti e complessi come la sepoltura dei defunti e la nascita dell’arte e di forme di spiritualità. Grazie alla possibilità di utilizzare due settori espositivi, una vasta collezione di strumenti litici e calchi di fossili umani, il personale del Centro di Educazione Ambientale (CEA) del Museo di Storia Naturale del Mediterraneo (MSNM) di Livorno ha potuto elaborare una serie di percorsi didattici finalizzati alla descrizione di numerosi aspetti dell’origine e dell’evoluzione della nostra specie. In questo lavoro si descrive l’attività didattica relativa all’insegnamento dell’evoluzione umana nell’ambito dei percorsi del Laboratorio di Antropologia realizzati presso il CEA del MSNM ponendo particolare attenzione sul processo di ricezione del fenomeno dell’evoluzione umana da parte della popolazione studentesca livornese. La ricezione e la percezione del processo evolutivo da parte degli allievi avviene attraverso un meccanismo di integrazione che genera un confronto (e talvolta un conflitto) tra le informazioni acquisite in contesto scolastico e le conoscenze ottenute attraverso mezzi di comunicazione attivi in ambiti extra-scolastici. Lo studente giunge dunque alle lezioni con una parziale conoscenza dei fatti evolutivi e, in certi casi, con una loro interpretazione preconfezionata che è stata acquisita in contesti extra-scolastici. Il conflitto e/o l’integrazione tra le conoscenze acquisite a scuola e quelle acquisite altrove talvolta possono essere rivelati da domande formulate dagli studenti in particolari momenti della lezione qualora agli studenti venga permessa la libera espressione del proprio pensiero. Lo scopo principale di questo studio consiste proprio nel mettere in luce gli aspetti più facilmente investigabili della formazione di concetti relativi all’origine ed evoluzione dell’uomo nella mente di studenti dall’età compresa tra i 9 e i 18 anni. Si cercherà inoltre di capire in che modo l’uso coordinato di settori espositivi dedicati, collezioni didattiche di preparati archeologici e antropologici e lezioni frontali possono veicolare una visione dell’evoluzione umana in linea con i modelli che la comunità scientifica considera corroborati attraverso fatti di natura paleontologica, archeologica e biologico-molecolare.
Lo scopo di questa comunicazione è quello di
creare un’occasione di confronto e di dibattito su tematiche
scientifiche e gestionali che stanno acquisendo sempre più
carattere di urgenza nell’ambito di una più ampia ed
articolata visione di tutela dell’archivio antropologico. Il
tema della riflessione si svilupperà attorno alle esperienze
del gruppo di ricerca della scuola torinese.
Nella prospettiva di
migliorare lo studio e la gestione delle collezioni antropologiche,
sia dal punto di vista della loro analisi ed interpretazione, sia per
quanto riguarda la diagnostica e la conservazione, recentemente, è
stato attivato il “Laboratorio per la gestione dell’Archivio
Antropologico - Centro di ricerca per lo studio e la conservazione
delle mummie”, con sede presso il Museo di Antropologia ed
Etnografia dell’Università degli Studi di Torino.
Il
Laboratorio di studio e conservazione dei reperti umani antichi, in
collaborazione con la Sezione di Anatomia Patologica dell’Università
di Genova, garantisce la continuità delle ricerche di
antropologia classica e di paleopatologia contribuendo alla
valorizzazione scientifica e storica delle collezioni biologiche già
presenti o di nuova acquisizione. Inoltre, il laboratorio offre la
possibilità di svolgere stages, nell’ambito delle
attività didattiche, in risposta alle numerose richieste da
parte di molti corsi di studi afferenti alle Facoltà di
Scienze M.F.N. e di Lettere e Filosofia.
Le attività del
laboratorio hanno lo scopo di coordinare, facilitare e condurre la
ricerca scientifica sui reperti museali e soddisfare le molte
richieste di studio da parte di Enti e Laboratori anche esteri.
L’applicazione delle più recenti tecnologie è
volta a sviluppare competenze specifiche atte ad approfondire le
conoscenze riguardanti i meccanismi e le cinetiche del degrado e le
metodologie scientifiche per il monitoraggio dello stato di
conservazione. Nell’ambito delle collaborazioni e degli scambi
internazionali, il Laboratorio ha recentemente istituito
collaborazioni con il Laboratorio di conservazione e restauro delle
mummie e dei resti umani del Musée de l’Homme di Parigi
e con il KNH Centre for Biomedical Egyptology di Manchester
Le indagini archeologiche propedeutiche alla
realizzazione della ferrovia ad Alta Velocità Milano-Napoli
hanno riportato alla luce un lungo tratto dell'antica Via Collatina
ed un’estesissima necropoli precedentemente ignota, nell’area
orientale di Roma. Lungo il tracciato della Via Collatina, lo
sviluppo della necropoli si estende notevolmente in direzione Sud,
assumendo proporzioni eccezionali, e coprendo un arco cronologico che
va dal I al III secolo d.C.. In generale le tombe sono ad inumazione,
chiuse da tegole e laterizi disposti in piano o alla “cappuccina”,
mentre più rare sono le cremazioni, per lo più
conservate in urne.
L’indagine estensiva della necropoli,
effettuata negli ultimi anni dalla Soprintendenza Archeologica di
Roma, ha permesso lo scavo di circa 2300 tombe. La dettagliata
documentazione tafonomica raccolta sullo scavo e l’analisi
antropologica dei reperti di un così vasto campione di
popolazione rappresenta un’occasione unica per formulare, in
base alle evidenze biologiche, ipotesi sul rituale funerario nei
diversi settori della necropoli e sulle condizioni di vita quotidiana
nell’Urbe durante l’età imperiale.
Allo stato
attuale delle ricerche, sono state sottoposte ad indagine
antropologica circa un terzo delle sepolture rinvenute nella
necropoli Collatina ed in questo lavoro verranno illustrati i
risultati preliminari dello studio e le potenzialità future
della ricerca.
SCOPO DELLA RICERCA
Questa indagine si pone
l’obiettivo di determinare le abitudini alimentari di gruppi
umani del Paleolitico Superiore italiano, al fine di verificare il
progressivo incremento della varietà dietetica a partire dal
Gravettiano.
MATERIALI E METODI
Sono stati considerati i
campioni provenienti da otto siti dell’Italia
centro-meridionale appartenenti al Paleolitico Superiore: Grotta
Paglicci (2 individui), Grotta delle Veneri (2 individui), Grotta
Romanelli (1 individuo), Vado all’Arancio (1 individuo), San
Teodoro (3 individui), Grotta del Romito (8 individui), Grotta
Continenza (9 individui) e Grotta Oriente (1 individuo).
Sono
stati analizzati campioni di osso prelevati dai resti scheletrici per
rilevare la concentrazione di alcuni elementi in traccia essenziali
per la ricostruzione delle abitudini alimentari. Il requisito
necessario degli elementi indagati a tale scopo consiste nella loro
esclusiva provenienza alimentare, in modo tale che la loro
concentrazione risulti proporzionale alla dieta degli ultimi anni di
vita, se si è esaminata la compatta, e degli ultimi mesi, se
si è esaminata la spugnosa. Nelle nostre analisi sono stati
considerati come indicatori di dieta i seguenti elementi: Ca, Sr, Mg,
Zn e Cu. Gli elementi in traccia vengono rapportati al Calcio
(elemento costituente la matrice ossea) per standardizzare i dati
riducendo l’influenza di eventuali contaminanti diagenetici. Lo
Stronzio è un elemento indicativo di consumo di cereali e
vegetali, ma anche di pesce e di molluschi terrestri e/o marini. Il
Magnesio è collegato ad un’alimentazione ad apporto
prevalentemente cerealicolo. Lo Zinco indica un’assunzione
proteica prevalentemente di origine animale. Il Rame è
correlato al consumo di particolari cibi carnei, come le frattaglie,
e di molluschi.
RISULTATI
Dalle analisi condotte si evince un
quadro nutrizionale in cui gli apporti proteici e vegetali sono alti.
Le elevate concentrazioni di Sr e Cu non sembrano derivare soltanto
da un consumo intensivo, rispettivamente, di vegetali e di
frattaglie, ma sembrano indicare anche l’assunzione di piccoli
pesci, di origine fluviale e/o marina, e di molluschi, di origine
marina e/o terrestre. La concentrazione di Mg si mostra in generale
nettamente inferiore ai parametri di riferimento, valori in linea con
l’assenza di agricoltura in questo periodo, anche se non è
da escludere la possibilità di assunzione di cereali selvatici
presenti sul territorio.
I risultati ottenuti dalle analisi
paleonutrizionali dovrebbero essere utilmente supportati da indagini
archeobotaniche e archeozoologiche, dallo studio della cultura
materiale e dalle ricostruzioni paleoambientali.
CONCLUSIONI
I
nostri risultati sembrano indicare un’economia di sussistenza
ad ampio spettro, che implica una dieta più varia e con un
maggior apporto di risorse ittiche principalmente d’entroterra.
Una tendenza che, a partire dalla fase finale del Paleolitico
Superiore, è indicata non solo dalle indagini
paleonutrizionali con gli oligoelementi, ma anche dalle analisi
isotopiche, dagli studi sulle microusure dentarie, dalle evidenze
archeozoologiche e archeologiche.
Nel 1693 un terribile terremoto devastò tutta la Sicilia, già peraltro sconvolta dai nefasti effetti dell’eruzione dell’Etna del 1669, dalle ripercussioni dell’insurrezione di Messina del 1674 e dalle epidemie diffusesi a macchia d’olio su tutta l’Isola. Il cataclisma rase al suolo Catania e altre città, fra le quali Lentini, in cui trovò la morte un terzo della popolazione. I danni furono di così grande portata tanto da valutare la possibilità di ricostruire la città di Lentini altrove. A partire dal 2005, nell’ambito di un progetto di recupero, valorizzazione e fruizione dell’area archeologica di colle Tirone e colle Castellaccio, su cui insistono i resti del Castello Vecchio, testimoni altresì degli eventi del 1693, la Soprintendenza dei Beni Culturali e Ambientali di Siracusa, ha avviato una serie di campagne di scavo, dalle quali sono emersi importanti risultati concernenti la ricerca paleoantropologica. Dal colle Tirone, in prossimità della strada di accesso al ponte levatoio del Castello, sono stati rilevati e recuperati più di venti individui dell'area cimiteriale, le cui testimonianze archeologiche datano la necropoli al Medioevo e precedente al 1693. Dal colle Castellaccio proviene, invece, il rinvenimento straordinario di un individuo rimasto vittima sotto le macerie del terremoto, oggetto del presente studio. Lo scheletro, attribuibile ad un maschio di oltre 40 anni, giaceva all’interno di una delle alcove disposte lungo le mura del Castello, in posizione rannicchiata, quasi di difesa, sotto grossi massi crollati dalla struttura sovrastante. I materiali rinvenuti in associazione allo scheletro permettono di acquisire ulteriori dati importanti. In diretta connessione con il corpo è stata rinvenuta una placca di bronzo attribuibile ad un gallone da uniforme o ad un accessorio simile che ha permesso l’identificazione del corpo con un militare di stanza nel Castello. Inoltre, la presenza di recipienti fittili accanto all’individuo (produzione siciliana - XVII secolo d.C.), distrutti e rimasti perfettamente in situ a seguito del crollo dei massi, sigillano l’episodio che può collocarsi nell’ambito degli eventi sismici del 1693. L’improvviso sopraggiungere dell’evento sismico non permise alla vittima un tentativo di fuga.
Nell’entroterra
polesano in località Larda, nel territorio comunale di Gavello
(Rovigo), si sono susseguiti scavi sistematici dal 1998 al 2004,
condotti dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici del Veneto e dal
Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo. I materiali ceramici rinvenuti sono
riferibili all’età del Bronzo medio-recente.
Questa
ricerca è finalizzata a comprendere le strategie di
sussistenza adottate nel sito e a contribuire alla ricostruzione del
quadro economico dell’età del Bronzo medio-recente
attraverso analisi archeozoologiche. I reperti faunistici sono stati
catalogati mediante una scheda informatizzata (Microsoft Access
2003). Misure osteometriche sono state condotte su tutti i reperti
integri o con porzioni misurabili. L’età di morte è
stata stimata in base al grado di saldatura delle epifisi e
dall’analisi dentaria. I manufatti in materia dura animale sono
stati analizzati in microscopia a scansione elettronica per
riconoscere le tracce legate alla loro confezione.
Questo studio
permette sia di ricavare informazioni sulla taglia degli animali e
differenziare i taxa selvatici da quelli domestici, sia di stabilire
l’età di morte per ottenere informazioni sulla gestione
e lo sfruttamento delle faune domestiche, sulla durata e
frequentazione dell’abitato.
L’insieme faunistico è
composto in prevalenza da faune domestiche. Le specie maggiormente
rappresentate sono: i caprovini (Capra/Ovis), il maiale (Sus
domesticus), il bue (Bos taurus) e il cane (Canis familiaris).
Le
specie selvatiche sono rappresentate da pochi resti di volpe (Vulpes
vulpes), cervo (Cervus elaphus) e capriolo (Capreolus capreolus).
Sono presenti, inoltre, numerosi frammenti riferiti a tartarughe
(Emys orbicularis), uccelli e una minima presenza di lontra (Lutra
lutra), indicatrice di ambiente umido. Numerosi sono i resti di
storione, che testimoniano l’interesse per la pesca come
ulteriore risorsa alimentare.
Dall’analisi delle curve di
mortalità di ciascun taxon si evidenzia una differente
gestione delle specie domestiche: i caprovini erano utilizzati per la
produzione di carne, latte e lana; il maiale veniva sfruttato sia per
il consumo della carne sia per l’eliminazione dei residui
agricoli; i bovini, di ridotte dimensioni (104 cm al garrese),
venivano impiegati come forza lavoro, produzione di carne e latte. I
cervi sono di grandi dimensioni e i palchi venivano lavorati per
confezionare numerosi oggetti in materia dura animale (es. punta di
freccia e spilloni).
Nel luglio 2006, lavori di scavo per la realizzazione
di una vasca di raccolta acque, effettuati all’interno del
cortile del Palazzo Comunale della cittadina garganica di Vieste
(Foggia), facevano venire alla luce, a circa 3 metri dal piano di
calpestio, una tomba di forma peculiare, caratterizzata da una
copertura di tipo spiovente costituita da sei lastroni calcarei
levigati aventi i lati brevi chiusi da due piccoli timpani.
Il
tempestivo intervento della Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Puglia, mirato all’indagine archeologica del sito,
consentiva di classificare cronologicamente, tramite l’analisi
dei corredi, la tomba come ellenistica, attestando un utilizzo
sepolcrale della struttura dal IV sec a.C. al II sec
a.C.
L’abbondanza (circa 250 pezzi) e il carattere
diagnostico e originale di diversi elementi del corredo funerario
rendevano plausibile l’attribuzione della tomba ad un nucleo
familiare di elìte dell’antico abitato dauno.
Nell’ambito del corredo, costituito da un’imponente
serie vascolare, da armi in ferro, stoviglie e strigili in bronzo,
oggetti in oro ed in argento, spiccava uno splendido elemento di
sigillo (sphragis) in cristallo di rocca raffigurante un cane di tipo
levrieroide.
Frammisti al corredo ed a frammenti litici e di
tegole si rinvenivano i resti scheletrici di almeno 25 deposizioni,
perlopiù dislocati caoticamente all’interno dell’area
sepolcrale o solo parzialmente connessi in senso anatomico, ad
eccezione dell’ultima deposizione in senso cronologico, che
appariva in posizione supina ed a circa 20 cm dal piano di copertura
tombale.
In tal senso, l’indagine antropologica e
paleopatologica dei resti scheletrici della tomba di Vieste si rivela
di grande interesse non solo per la ricostruzione delle
caratteristiche scheletriche e del modus vivendi di un nucleo
familiare di elìte di un abitato della Daunia tra età
ellenistica e conquista romana, ma offre anche l’opportunità
di far luce sulle ritualità funerarie delle antiche comunità
umane del Gargano.
Le lesioni localizzate a livello del colletto dei
denti, di origine non batterica, sono raggruppate sotto il termine
generale di NCTL (Bader et al. 1996; Mayhew et al. 1998). Questa
patologia colpisce principalmente la superficie buccale del dente e
si presenta come una lesione cuneiforme con fondo liscio e margini
netti. La sua eziologia è multifattoriale (Bader et al. 1996;
Mayhew et al. 1998) e coinvolge processi quali abrasione (perdita dei
tessuti per cause meccaniche), erosione (demineralizzazione della
matrice inorganica sotto l’azione degli acidi intrinseci ed
estrinseci), attrito (in attività funzionali e parafunzionali)
e forze occlusali (da masticazione o da malocclusione). Nonostante la
loro alta incidenza in pazienti moderni, Aubrey et al. (2003),
analizzando 3927 denti, ne hanno puntualizzato l’assenza in
campioni da contesti archeologici.
Tra le 155 inumazioni rinvenute
nella necropoli del Centro Commerciale (Cultura di Laterza,
Eneolitico recente -Bronzo antico iniziale) del sito US NAVY di
Griciniano d’Aversa (Caserta), l’inumato della tomba 3,
di sesso femminile e di età alla morte di circa 25-30 anni,
presenta una lesione buccale del colletto di origine non cariosa
(NCTL) nell’incisivo superiore laterale di sinistra, che, ad
oggi, rappresenta l’evidenza più antica conosciuta di
simile patologia.
Tra i fattori eziologici di tali lesioni gli
stess biomeccanici causati da malocclusione (abfraction) sembrano
essere determinanti: in presenza di essi si generano forze che
possono curvare il dente, provocare la rottura dei legami tra i
cristalli di idrossiapatite e determinare la perdita dei tessuti
dentari (Rees 2000). L’individuo della tomba 3 presenta infatti
una protrusione a livello degli incisivi di entrambe le arcate e può
essere catalogato dal punto di vista dell’occlusione in prima
classe canina ed in terza molare. La profondità della lesione
inoltre ha messo in comunicazione la camera pulpare con l’ambiente
settico della bocca, provocando lo sviluppo di un ascesso periapicale
che ha causato la distruzione dell’osso alveolare e della
corticale esterna del mascellare intorno alla radice del dente. Il
soggetto, inoltre, presenta a livello cranico l’evidenza di un
esteso ascesso (empiema), che ha probabilmente interessato anche
l’emiencefalo sinistro ed è sicuramente perdurato nel
tempo.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Donat, B, Brau, JJ. 2003. Brief Communication:
Study Of Noncarious Cervical Tooth Lesions In Samples Of Prehistoric,
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periodontal, and dietary factors with the presence of non-carious
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the biomechanics of abfraction. Europ. J. Prosth. Rest. Dent.
2000 Dec., 8(4), pp. 139-144.
Gli studi relativi alla conservazione dei resti umani
antichi sono affrontabili con molteplici chiavi di lettura. Anche lo
scopo di tali studi può essere assai differenziato: dai
contesti archeologici a quelli museali ed espositivi, nell’ottica
della conservazione dei beni culturali e scientifici, a quelli più
strettamente legati all’analisi antropologica di laboratorio in
relazione all’applicabilità di metodi di analisi e
studio specifici, condizionata dall’eventuale danneggiamento
dei reperti stessi. Il presente contributo si occupa dell’analisi
delle condizioni microscopiche di conservazione di resti osteologici
umani antichi, verificando a livello istologico la presenza di
alterazioni postdeposizionali del tessuto osseo, quali, ad esempio,
le azioni destrutturanti di funghi e batteri. L’erosione che
tali microrganismi esercitano sul tessuto osseo rende illeggibili i
preparati istologici e impossibile un’analisi interpretativa o
diagnostica dei reperti; oltre poi a danneggiare direttamente il
tessuto ed aumentare anche la porosità dell’osso con
maggiore esposizione alle alterazioni diagenetiche di varia
natura.
Le ife fungine possono penetrare nell’osso
attraversando la corticale o penetrare dal canale midollare esposto
da fratture e diffondersi attraverso i canali vascolari dell’osso,
formando canalicoli più o meno ramificati (di 5 – 10
micron di diametro) con riassorbimento della matrice organica e dei
cristalli. L’attività batterica si presenta
diversamente, con una penetrazione nei canalicoli e nelle lacune
osteocitiche ed un aspetto appannato del preparato. Talvolta anche
con cavità arrotondate e ovoidali a volte confluenti: caso in
cui agiscono sia enzimi che attaccano la sostanza organica sia acidi
organici, prodotti dal metabolismo batterico, che attaccano la
sostanza minerale.
Le tecniche applicate sono una modifica
parziale di quelle utilizzate in passato presso il nostro laboratorio
per la realizzazione di sezioni sottili da osso non decalcificato,
previa inclusione in resina poliesterica a freddo, con microtomo per
tessuti duri a lama circolare al diamante (Leitz 1600, Wetzlar). Le
osservazioni sono state effettuate con microscopio ottico a luce
polarizzata (Olympus BX50) procedendo in alcuni casi a colorazione
con fuxina per poi realizzare immagini fotografiche digitali
analizzabili tramite il programma di analisi d’immagine Image
J.
Le analisi sono sia di tipo qualitativo, volte a cogliere le
modalità, i ritmi e le vie di contaminazione dell’osso
seguite dai microrganismi in giacitura, sia di tipo quantitativo, con
analisi micrometriche di canalicoli e microfratture, utile ad
interpretarne l’eziologia e quindi il significato. Si
presentano quindi alcuni preparati provenienti da individui con
diverse situazioni di sepoltura e dunque con differenti condizioni di
alterazione istologica del tessuto osseo, documentando da un lato le
diverse vie di penetrazione e diffusione degli agenti microbiotici e
dall’altro i risultati dell’analisi d’immagine,
come nuovo contributo all’interpretazione degli agenti
eziologici di alcune delle alterazioni osservate.
Nell’estate 2006 l’Università di
Bari ha intrapreso un saggio di scavo archeologico all’interno
del battistero del Piano di S. Giovanni, a Canosa (Bari), che ha
evidenziato una frequentazione umana del sito dal V secolo a.C. al
XIV secolo della nostra era.
Tali testimonianze consistono in
strutture di abitazioni, di luoghi di culto ed in numerose tombe.
Al
di sopra di una tomba a camera di età classica ed in un
contesto stratigrafico pertinente alla seconda metà del V sec.
d.C., è stata intercettata una sepoltura terragna monosoma
senza corredo.
Data la tipologia della deposizione, con
caratteristiche tipiche di una deposizione in uno spazio vuoto, quali
il collasso della gabbia toracica al suolo e l’apertura della
sinfisi pubica, è probabile che il disfacimento dei tessuti
molli in uno spazio aereo sia stato consentito dall’esistenza
di una cassa lignea, che non ha lasciato tracce riconoscibili.
I
risultati delle indagini antropologiche e paleopatologiche effettuate
sui resti scheletrici hanno evidenziato un individuo di sesso
maschile, deceduto intorno ai 40-44 anni di età. Di
costituzione robusta, la sua statura da vivente si può stimare
intorno ai 170 cm, il suo peso corporeo intorno agli 80 kg.
Le
cause del decesso, imputabili ad una morte violenta, sono
riconoscibili dal riscontro di una serie di lesioni ossee che hanno
interessato sia il cranio che lo scheletro post-craniale, tutte prive
di tracce di riparazione ossea e prodotte da colpi di un’arma
da taglio.
Lo studio antropologico dello scheletro ha evidenziato
alcune caratteristiche craniometriche e cranioscopiche del soggetto,
quali il cranio corto e largo (iperbrachicrania), il frontale stretto
rispetto alla larghezza cranica (iperstenometopia), l’appiattimento
frontale del volto (platopia), e la morfologia dell’osso
zigomatico in cui si rileva una certa proiezione anteriore.
Tali
caratteristiche, inserite in funzioni discriminanti le popolazioni
caucasoidi da quelle mongoliche hanno mostrato, per l’individuo,
un’affinità con i raggruppamenti popolazionali
mongolici.
Un ulteriore confronto, effettuato attraverso metodiche
appropriate di analisi multivariata, di alcune variabili craniche del
soggetto con quelle di serie scheletriche coeve della regione o di
realtà geografiche differenti, hanno evidenziato un’affinità
biologica tra l’individuo di Canosa ed un campionamento
proveniente da un cimitero dell’Europa centrale.
Tale dato
risulterebbe strettamente correlato all’ingresso dei popoli
della steppa (Unni, Avari, Bulgari) in Europa dal V al VII secolo d.
C., ed al rinvenimento, in diversi cimiteri tardoantichi della Puglia
settentrionale (tra cui un individuo in precedente saggio di scavo al
Piano di S. Giovanni) e del Molise, di soggetti dalle caratteristiche
scheletriche riconducibili a tali popolazioni.
La presente
indagine fa parte di uno studio antropologico del territorio nel
periodo delle invasioni barbariche di più ampio respiro,
mirato alla comprensione dei rapporti tra popolazioni autoctone ed
invasori in termini di dinamiche biogenetiche, cambiamenti delle
abitudini alimentari, delle condizioni lavorative, e degli equilibri
patocenotici.
The ancient city of Velia (called Elea
during the Greek period) was under Roman control since the second
century BC where it continued to be an important harbour and economic
center. A large graveyard with over 230 burials (necropolis of Porta
Marina), immediately adjacent to the ancient port, was excavated in
the years 2003-2006. In 2005, the Archaeological Superintendency of
Salerno, with the collaboration of an international team of Research
Institutes, promoted a project for a comprehensive paleobiological
analysis of this skeletal sample (the Velia Project). The aim of this
project is to reconstruct the demographic history, diet, health
status and genetic variability of the population of ancient Velia
using a combined biomolecular and paleobiological approach. The final
goal is to convey its results into the broader comprehension of the
life style of the Imperial Roman communities in Central and Southern
Italy. In fact, the interpretation of anthropological data for this
period is still incomplete and strongly conditioned from the large
heterogeneity of the populations living in Italy during Imperial
Roman time. Furthermore, while a rich literature is available on
historical sources and archaeozoological record referring to the
roman diet, there is just a single case where the differential access
to marine resources has been studied (the necropolis of Isola Sacra,
Rome, Italy).
The preliminary paleodemographic analysis shows
that more than 50% of the individuals are subadults, a percentage not
far from expectation. The infant mortality is particularly high
between birth and one year of age. Adult sex ratio is slightly skewed
with a predominance of females. The analysis of ancient mitochondrial
DNA has been used to estimate the genetic heterogeneity of the
population. So far, carbon and nitrogen stable isotope analysis of 94
adult individuals was completed, while the sampling of all preserved
individuals is still in progress, representing the largest dietary
study ever undertaken on a single cemetery. The lack of any
appreciable marine signal in the adult diet is a startling feature of
the Velia stable isotope data, considering the site’s coastal
location, the historical sources attesting to the consumption of fish
during the Roman period and the evidences offered by the
penecontemporary coastal site of Isola Sacra. The study of oral
pathologies (caries, abscesses, alveolar resorption) showed bad
dental health, also suggesting a diet rich in cariogenic food.
The
project foresees more analytical steps, involving the study of
occupational markers, dental enamel microstructure, strontium stable
isotopes to identify recent immigrants, and bone turnover rates. We
expect that this combined approach could highlight the historical
reconstruction of the life of this imperial roman community.
La missione paleo-antropologica italiana in Sudafrica,
composta da membri e collaboratori del Laboratorio di Antropologia,
Dipartimento di Biologia Animale e Genetica, Università di
Firenze, da ricercatori del Museo di Scienze Biomediche, Università
di Chieti e da ricercatori dell’University of the
Witwatersrand, Johannesburg, Sudafrica è stata impegnata nello
scavo al sito paleontologico di Drimolen, a circa 30 Km da
Johannesburg, i cui depositi sono databili ad un arco temporale tra 2
e 1.5 milioni di anni fa.
Scopo della missione era quello di far
luce sulla presenza in Sudafrica di una delle più antiche
specie del genere Homo, indicata da alcuni autori come Homo
ergaster, e finora rappresentata in altri siti sudafricani da
alcuni resti dentari e parti di cranio.
Negli anni passati i
ricercatori sudafricani avevano rinvenuto a Drimolen numerosi resti
fossili di Ominidi appartenenti a due specie diverse – una
attribuita al genere Homo e l’altra alla specie Australopithecus robustus, rappresentata da un cranio quasi
completo di un individuo femminile e da numerosi resti di denti,
mandibole e porzioni di cranio.
La ricerca mira da una parte a
chiarire le caratteristiche morfologiche distintive di ciascuna delle
due specie di Ominidi e dall’altra a individuare le possibili
tracce delle più antiche evidenze culturali di questi Ominidi,
sotto forma di utensili litici.
Gli scavi condotti negli anni
precedenti hanno messo in luce due aree nel deposito, più o
meno coeve, delle quali una costituita da brecce altamente
calcificate ed un’altra che ha subito processi di
decalcificazione. Fra i risultati della missione del 2006 vi è
stata la scoperta di un òmero appartenuto ad un Ominide.
L’individuo dal quale deriva doveva avere, al momento della
morte, solo poche settimane di vita – se l’età
biologica del reperto viene stimata secondo gli standard di sviluppo
dell’umanità attuale.
The
frequencies of nine discrete cranial traits are contrasted among ten
skeletal series of central Italy to assess the patterning of
biological affinity or divergence.
In this study various
statistical applications were used: Mean Measure of Divergence (MMD),
which was elaborated using the WPGMA cluster analysis,
neighbor-joining method and principal coordinate analysis.
The
results show two main groups divided by the Apennines, which probably
were a geographic barrier to biological exchange during the Italian
Iron Age.
This fact induced endogamous phenomena in the
populations on the two sides of Italy (Adriatic and Tyrrenian) and
probably increased the familial segregation of traits. The group on
the western side has a further division between samples of the
central coast and those of the southern coast. The latter samples
seem to be more closely connected to Sardinian peoples, and this
indicates gene flow and cultural contacts, which were not hindered by
the sea. This segregation appears to have receded by Roman times.
Il progetto Anthroponet si pone l’obiettivo di
realizzare la prima attività di raccolta, sistematizzazione e
diffusione delle conoscenze sul materiale scheletrico proveniente dai
siti della Sardegna, dalle prime testimonianze del Paleolitico
inferiore fino alla caduta dell’Impero Romano d’occidente.
Il progetto si avvale della partecipazione delle Soprintendenze
archeologiche della Sardegna, del sostegno finanziario della Regione
Sardegna (Asse III –mis. 3.13 POR
Sardegna), e del contributo di società informatiche
(Applidea e 3DDD) con sede a Cagliari. Esso si articola nelle
seguenti fasi:
- definizione del dizionario dati e dei criteri di
catalogazione delle collezioni scheletriche (messa a punto di una
scheda di rilevamento contenente le tipologie di informazioni utili
per la classificazione delle collezioni; studio a priori delle
modalità e dello spettro di variazione delle variabili, e
delle possibili associazioni interne);
- censimento del materiale
scheletrico (campagna di rilevamento presso le Istituzioni regionali
ed extraregionali, che potrebbero possedere materiale scheletrico
sardo; raccolta delle informazioni della letteratura);
- attività
di redazione (stesura di schede informative sui principali contenuti
scientifici e di un glossario della terminologia, tecnica a carattere
didattico e divulgativo);
- informatizzazione dati
(memorizzazione digitale su archivi informatici integrabili nel
tempo);
- ricostruzioni tridimensionali (riproduzione di oggetti
di interesse antropologico o archeologico con possibilità di:
selezione di viste e punti notevoli; rotazione e manipolazione
libera; misurazioni dinamiche; visualizzazione di specifiche schede
informative);
- interfaccia accessibile via Internet
(realizzazione di un sistema informatico web-based per la
pubblicazione e condivisione delle informazioni).
La prima fase ha
prodotto la definizione di una base dati che si articola in diversi
campi, ciascuno dei quali composto da più variabili definite
nei dettagli di variazione: notizie generali, geografiche, inerenti
lo scavo, archeologiche, antropologiche, datazioni.
È
disponibile un prototipo della base dati in formato elettronico. È
stata inoltre realizzata la riproduzione tridimensionale di una
vertebra.
La fase del censimento è stata avviata attraverso
lo studio della letteratura specifica, la raccolta di informazioni
presso l’Università di Cagliari e la Soprintendenza
archeologica per le province di Cagliari e Oristano.
Sono stati
censiti 242 siti, suddivisi nei diversi periodi come segue: 0,4% nel
Paleolitico, 0,4% nel Mesolitico, 10,7% nel Neolitico, 30,2%
nell'Eneolitico, 38,8% nell'età del Bronzo, 4,6% nel periodo
Fenicio, 5,0% nel periodo Punico, 9,9% nel periodo Romano. La cultura
Bonnanaro A (età del Bronzo) è la più
rappresentata, con l’11,1% dei siti censiti. La maggior parte
dei siti censiti è situata nelle regioni storico-geografiche
del Campidano di Cagliari (16,5%), Sulcis (14,9%) e Campidano di
Oristano (10,3%).
Il lavoro di censimento finora svolto ha
consentito di verificare l'adeguatezza della base dati costruita e
permette di realizzare considerazioni sintetiche a carattere
preliminare.
Negli ultimi anni abbiamo
assistito ad un crescente interesse verso la ricostruzione delle
attività fisiche che, ripetute nel tempo, lasciano tracce
rilevabili sullo scheletro. I continui microtraumi a cui sono
sottoposti muscoli e articolazioni durante le attività
abituali, generalmente legate al lavoro, producono delle alterazioni.
Queste rappresentano la reazione dell’osso allo svolgimento di
azioni quotidiane e pertanto la loro localizzazione e la diversa
tipologia permettono di risalire alle funzioni esercitate dai vari
distretti anatomici fornendo un’importante chiave di lettura
per la ricostruzione delle attività svolte dall’individuo.
In questa sede viene presentata una scheda redatta allo scopo di
agevolare il rilevamento della presenza e del grado di sviluppo degli
indicatori muscolo-scheletrici di stress funzionale e per facilitarne
l’elaborazione. La scheda rimanda ad un elenco delle principali
aree interessate da stress bio-meccanico, mentre le diverse forme di
lesione sono distinte a seconda della localizzazione e della loro
tipologia, secondo il seguente schema:
Aree di
origine/inserzione muscolare: S = erosione/pitting/osteolisi; O =
ossificazioni/esostosi/entesofitosi.
Aree articolari: L =
lipping/osteofitosi; S = erosione/pitting/osteolisi; E =
eburneazione; F = faccette accessorie.
Processi infiammatori: P =
periostite.
Tab. 1
Alle alterazioni rilevate viene
inoltre attribuito un grado di insorgenza secondo il seguente
criterio:
Gradi: 0 = assente; 1 = lieve; 2 = medio; 3 = marcato;
NR = area non rilevabile.
Per i distretti anatomici che prevedono
osservazioni multiple (vertebre, coste, mani e piedi) è
previsto l’inserimento di un numero di osservazioni (n) e di un
numero di presenze (p).
Tab. 2
L’insieme di
questi dati, soprattutto se concepiti in un’ottica
popolazionistica, rappresenta uno strumento di grande potenzialità
nella ricerca antropologica e per la ricostruzione del contesto
storico-economico delle società antiche. Da qui la necessità
di una standardizzazione del loro rilevamento resa indispensabile
dall’opportunità di sottoporli a specifici trattamenti
statistici.
Vengono presentate alcune considerazioni generali sui dettagli radiologici della sella turcica di una ventina di individui di periodo antico e recente. Le valutazioni ricavate di natura sperimentale, consentono di affrontare ipotesi sullo stato pregresso della ghiandola ipofisaria, a cominciare dalla forma e grandezza, sino alla ipotetica funzionalità. Riteniamo che l’esame della sella turcica possa rappresentare una informazione di arricchimento sullo stato osseo, costituzionale e morfonatomico del soggetto in vita. Sono state eseguite radiografie dirette nelle norme di protocollo classico (anteriore e norma laterale). La comparazione delle misurazioni, al momento riferite alle sole norme laterali con le debite cautele sulla distorsione dell’immagine in rx, ci ha restituito attraverso indici di riferimento delle indicazioni interessanti di confronto tra le diverse forme della sella. I soggetti esaminati vanno dall’infanzia alla età adulta. Di sesso femminile e maschile. Il limite del campione che si spera di allargare almeno a cinquanta individui è dato dalla difficoltà di reperire crani in buone condizioni di conservazione con selle turciche non frammentate e dai costi sostenuti delle radiografie.
Alcuni componenti chimici presenti in traccia nell’osso sono considerati elementi guida della dieta delle popolazioni antiche. La raccolta di tutti i risultati delle analisi di paleonutrizione, condotte nell’arco di un ventennio nel Laboratorio dell’Università di Pisa con l’uso dell’AAS, consente di tracciare l’andamento delle condizioni alimentari umane dalla Preistoria sino all’Età Moderna. Sono stati saggiati più di 3000 individui provenienti da oltre 150 siti. Gli elementi indagati sono Calcio, Zinco, Stronzio e in alcuni casi Rame e Magnesio. I primi tre sono gli elementi fondamentali per questo tipo d’analisi poiché il calcio è parte integrante della matrice ossea, mentre zinco e stronzio sono indicatori di una dieta rispettivamente ricca in apporti carnei, di latte e/o derivati per il primo elemento, e vegetale, cerealicola e/o ittica per il secondo. Per effettuare confronti tra popolazioni diverse i dati dei differenti siti sono stati standardizzati mettendo in correlazione il rapporto Sr/Ca umano con quello degli erbivori. I valori così ottenuti sono paragonabili tra popolazioni sincrone, diacroniche ed eterotopiche. L’andamento paleonutrizionale ottenuto aderisce bene al quadro alimentare tracciato dalle evidenze storico-archeologiche e paleoantropologiche. Gli alti valori di Zn/Ca confermerebbero la propensione alla caccia nel Paleolitico, invece la più rilevante predominanza del Sr/Ca suggerirebbe un’inclinazione maggiore alla raccolta nel Mesolitico. L’importante rivoluzione agricola del Neolitico è ben evidenziata dal valore dominante di Sr/Ca, che si mantiene pure nell’Eneolitico, dove però si registra anche una considerevole concentrazione di Zn/Ca, espressione di economie alimentari in cui l’allevamento inizia ad assumere un ruolo determinante. L’allevamento si affermerà nel Bronzo definendo una dieta mista in cui gli apporti vegetali e proteici risultano soddisfacenti. Si registra una netta diminuzione degli apporti di origine animale nell’Età del Ferro, più abbondanti nell’età Romana e Tardo Antica, riflesso di un tipo di economia basata soprattutto sull’agricoltura. La dieta Alto Medievale registra concentrazioni simili a quelle dell’Età del Bronzo, dunque un’alimentazione mista ricca in apporti proteici, probabilmente associabile sia all’arrivo delle popolazioni barbare che ad economie pastorali. Dieta mista con prevalenza di apporti vegetali per il Basso Medioevo, legata ad un’economia in cui si afferma l’agricoltura e che accoglie, a partire dall’Età Moderna, l’arrivo di nuovi prodotti dalle americhe. Dal Medioevo nonostante si assista all’affermarsi di una dieta con caratteri di maggiore uniformità è necessario valutare l’importanza che i singoli prodotti hanno all’interno del sistema socio-culturale ed alimentare dei diversi gruppi etnici e la possibile dicotomia tra siti rurali e urbani. L’allontanamento del tipo di dieta moderna dall’alimentazione paleolitica esprime l’evoluzione e l’adattabilità dell’uomo non più legata passivamente alle risorse ambientali, ma ad una flessibilità nei consumi alimentari e alla capacità di intervenire attivamente alla produzione e trasformazione del cibo.
Nel quadro delle risorse
strategiche e delle tecnologie che hanno permesso la presenza e la
diffusione dei neandertaliani durante fasi climatiche fredde, la
gestione e l’ottimizzazione del fuoco e dei materiali
combustibili ha senza dubbio avuto un ruolo fondamentale; non
stupisce dunque che, tra gli elementi strutturali presenti in grotte
e ripari del Paleolitico medio, le aree di combustione rappresentino
spesso le evidenze più chiare e numerose. Comuni sono anche le
concentrazioni di cenere e di resti di ossa animali parzialmente
bruciate. L’utilizzo di ossa come combustibile, in fuochi
innescati con materiale vegetale, sembra infatti particolarmente
efficace quanto a durata e resa calorica. I frammenti ossei
parzialmente combusti rinvenuti in aree limitrofe a focolari non
sono, quindi, attestazioni di sporadici smaltimenti bensì,
molto probabilmente, resti di un sistematico utilizzo di alcune parti
ossee come combustibile.
Oggetto di questo lavoro sono alcuni
esempi di strutture di combustione rinvenute in due siti del
Paleolitico medio del Sud Italia: il Riparo del Molare presso Scario
(SA) (MIS 5) e il Riparo l’Oscurusciuto nella gravina di Ginosa
(TA) (MIS 3).
Il Riparo del Molare ha una sequenza stratigrafica
di 10 metri, che racchiude 23 livelli antropici, molti dei quali
identificabili come vere e proprie paleosuperfici, con manufatti
litici e resti di pasto particolarmente abbondanti. Di grande
rilevanza la scoperta, a metà del deposito, di una mandibola
neandertaliana relativa ad un bambino di 4 anni.
Nel corso degli
scavi (1984-2001 su 10 mq ca di estensione) sono state messe in luce,
in quasi tutti gli episodi di frequentazione, aree di combustione non
strutturate. La forma di queste strutture è ovale, le
dimensioni contenute (asse max 20-60 cm): in alcuni livelli più
focolari di questo tipo devono essere stati in funzione
contemporaneamente.
Nel Riparo l’Oscurusciuto i focolari
sono particolarmente interessanti in quanto presenti in diverse
tipologie all’interno di una breve scansione stratigrafica. Il
riparo, che ha perduto l’antico aggetto a causa di ripetuti
crolli della volta, presenta un’area antropizzata stimata in
circa 60 mq di superficie. L’area attualmente scavata
corrisponde ad una fascia di circa 10 mq compresa tra la parete di
fondo e un bordo laterale. Nell’unità stratigrafica più
profonda finora indagata sono state rinvenute tre piccole aree di
combustione, allineate a circa due metri dalla parete di fondo. Due
di queste sono strutturate in fossette di forma ellissoidale (asse
max 50-70 cm). La terza area è invece costituita da una serie
di sei piccoli focolari, subcircolari, impostati in fossette in parte
sovrapposte. Nella stessa area del riparo, in una unità
stratigrafica superiore, è stata scavata una struttura di
combustione completamente diversa. Si tratta di un’ampia
depressione poco profonda, di forma semicircolare (circa due metri di
raggio), impostata nell’angolo del riparo tra la parete di
fondo e il bordo laterale. Queste strutture di combustione esprimono
due diverse organizzazioni dello spazio del riparo, probabilmente
legate a un diverso utilizzo del fuoco.
INTRODUZIONE
Gli scavi eseguiti presso la Tomba IX
-appartenente alla necropoli ipogeica di “Sa Figu”-
situata nelle vicinanze del paese di Ittiri (Sassari), hanno
restituito un cumulo di resti ossei umani combusti e frammenti di
vasi riferibili con certezza all’Età del Bronzo
Antico.
Oltre allo studio antropologico classico, sono stati
indagati e valutati alcuni elementi riguardanti più
propriamente un presunto rituale funerario crematorio–pratica
di difficile verifica nella preistoria della Sardegna-quali le
temperature di combustione subite dai frammenti ossei ritrovati
all’interno del sepolcro, tramite un’indagine
chimico-fisica in cui si è utilizzata la diffrazione a raggi
X(XRD).
MATERIALI E METODI
Per l’indagine
antropologica sono state seguite le metodologie di
Ubelaker(1989).
Gli spettri di diffrazione X per polveri sono
stati acquisiti con un diffrattometro D8 Bruker, impiegando la
radiazione del rame nella geometria di BraggBrentano e con un
monocromatore di grafite nel fascio diffratto. Sono stati utilizzati
per lo studio dodici frammenti ossei combusti, rappresentativi per
colorazione e tessitura dell’intero campione proveniente dagli
scavi. Le temperature di combustione sono state determinate dagli
allargamenti dei picchi di diffrazione dell’idrossiapatite o
ossiapatite dopo opportuna calibrazione (Enzo et al,2007).
La
metodologia adottata è stata applicata e convalidata anche su
reperti cremati provenienti dalla Spagna, utilizzati come utile
confronto (Piga et al, 2007).
RISULTATI
Nella Tomba IX di
Sa Figu sono stati identificati 16 individui di cui 9 adulti e 7
subadulti. Si è potuto diagnosticare il sesso di 7 individui
(4 maschili e 3 femminili), osservando i caratteri morfologici e
metrici della regione sinfisaria. Sugli altri resti, troppo
frammentati, non è stato possibile procedere ulteriormente.
I
7 individui restanti sono stati diagnosticati come subadulti dopo
aver osservato che i frammenti mascellari presentavano dentizione
mista o decidua.
Le temperature di trattamento al fuoco
riscontrate tramite la diffrazione a raggi X non appaiono omogenee e
rientrano in un intervallo compreso tra 400 e 850°C.
CONCLUSIONI
Le
alte temperature determinate specialmente nei frammenti n° 6, 8 e
9 sono compatibili con una cremazione.La non omogeneità delle
temperature stimate nei vari reperti suggerirebbe una cremazione
incompleta "in situ".
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treatment and X-ray powder diffraction on burnt fragmented bones from
Tombs II,IV and IX belonging to the hypogeic necropolis of “Sa
Figu” near Ittiri-SS(Sardinia-Italy).Journal of Archaeological
Science.
Piga G.,Malgosa A.,Mazzarello V.,Bandiera P.,Melis
P.,Enzo S.,2007.Anthropological and physico-chemical investigation on
the burnt remains of Tomb IX in the “Sa Figu” hypogeal
necropolis (Sassari-italy)-Early bronze Age.International Journal of
Osteoarcheology 17(in press).
Durante gli scavi archeologici effettuati nella grande
necropoli di età imperiale di Viale della Serenissima (I-II
sec. D.C.) situata nel settore orientale di Roma, nell’area M è
stata rinvenuta una sepoltura contenente resti scheletrici umani
affetti da patologia.
L'inumato, privo di corredo e deposto in
posizione fetale, giaceva in una fossa scavata nel tufo, con
copertura costituita da un grosso frammento di anfora rinvenuto a
protezione del cranio, del quale sono stati rinvenuti solo pochi
frammenti, e della parte alta del torace.
Il cattivo stato di
conservazione dello scheletro e la frammentazione di cranio e bacino
non hanno permesso una determinazione del sesso dell’individuo,
mentre la completa fusione delle epifisi con le diafisi e la presenza
di un terzo molare in eruzione hanno consentito di collocare l’età
alla morte in un intervallo compreso tra i 23 ed i 30 anni.
Tutte
le ossa lunghe conservate risultano essere notevolmente più
corte del normale, in particolare quelle degli arti inferiori: la
lunghezza di tibia e femore è di quasi 10 cm inferiore alla
lunghezza media di popolazioni romane coeve.
Le ossa lunghe degli
arti superiori presentano, oltre ad un accorciamento di diversi
centimetri, evidenti deformazioni a carico delle inserzioni muscolari
e di conseguenza della morfologia delle diafisi. Purtroppo, solo in
pochi casi sono osservabili le estremità delle ossa lunghe:
alcune epifisi sono alterate e si osserva un allargamento delle
metafisi. In particolare, l’articolazione del gomito presenta
evidenti modificazioni.
Il cattivo stato di conservazione e la
frammentazione dei distretti scheletrici maggiormente diagnostici, in
particolare del cranio e del tronco, hanno limitato la possibilità
di una diagnosi differenziale. Tuttavia, le alterazioni osservate
sono compatibili con una forma di nanismo acondroplasico.
La
presenza ed il ruolo dei nani a Roma durante l’età
imperiale è largamente documentata da fonti letterarie ed
iconografiche che testimoniano come le persone affette da disturbi
della crescita fossero particolarmente apprezzate e ricercate,
esibite quasi come oggetti preziosi, utilizzate come servitori
particolari ed educate nelle arti dell’intrattenimento.
Introduzione
Il riparo dell’Uzzo è uno
dei più importanti e rappresentativi del panorama
mediterraneo. Durante le campagne di scavo eseguite tra gli anni 1975
e 1983 (Borgognini et al., 1993) vennero portate alla luce dieci
sepolture. Le datazioni precedentemente eseguite (Piperno, 1985;
Mannino et al., 2006) collocano il sito e i reperti umani tra 9500 e
8600 anni fa.
Nel 2004 è stata effettuata una nuova
campagna di scavo (Conte e Tusa, 2006) durante la quale è
stata rinvenuta una undicesima sepoltura: Uzzo XI, isolata rispetto
alle altre, addossata lungo la parete orientale del riparo. I resti
si trovano in un contesto archeologico mesolitico, senza un apparente
corredo ma con resti di fauna (C. elaphus, S. scrofa,
O.turbinatus).
Materiali e metodi
L’inumato Uzzo XI è
stato esaminato da un punto di vista morfo-metrico mediante
l’utilizzo dei parametri convenzionali. Una conchiglia del
mollusco mesolitorale O. turbinatus, rinvenuta all’interno
della sepoltura, è stata oggetto di una datazione radiometrica
con spettrometria di massa con acceleratore AMS, e dell’analisi
degli isotopi dell’ossigeno, ai fini della determinazione della
stagione di raccolta.
Risultati
Sulla base dei parametri
metrici e morfologici, Uzzo XI risulta un maschio adulto, di
tipologia dolicomorfa. Lo scheletro post-craniale è
robusto.L’analisi odontologica ha rilevato ipoplasia dello
smalto e usura. L’analisi morfologica trova grandi similitudini
con i reperti di Grotta d’Oriente (TP) e in parte di Molara
(PA). Il gasteropode associato è stato datato a 9800-9460 anni
fa.
Conclusioni
Uzzo XI risulta antropometricamente coerente
con il campione umano precedentemente descritto proveniente dal sito.
Le analisi ed i confronti morfometrici indicherebbero una
“popolazione” omogenea, distribuita nei siti prospicienti
al mare del vasto e ricco sistema ecologico che si sviluppava dalla
baia dell’Uzzo, al Monte Speziale, al promontorio di S. Vito lo
Capo e all’isola di Favignana, in quel tempo unita alla costa
occidentale della Sicilia.
L’analisi degli isotopi
dell’ossigeno da cinque campioni consecutivi di carbonato di
calcio dal bordo della conchiglia di O. turbinatus (che in ordine di
crescita sono: 2,03‰ - 2,03‰ - 2,15‰ - 2,07‰
- 1,90‰) indica che il mollusco fu probabilmente raccolto ed
introdotto nella fossa, tra la fine dell’inverno e l’inizio
della primavera.
BORGOGNINI TARLI SM, CANCI A, PIPERNO M, REPETTO E.
1993. Dati archeologici e antropologici sulle sepolture mesolitiche
della Grotta dell’Uzzo (Trapani). BPI 84: 85-179.
CONTE L,
TUSA S. 2006. Approfondimento stratigrafico della Grotta dell’Uzzo.
In: Dai Ciclopi agli Ecisti. Società e territorio nella
Sicilia preistorica e protostorica. Riassunti XLI Congresso Istituto
Italiano Preistoria e Protostoria, pg. 13-14.
MANNINO MA, THOMAS
KD, PIPERNO M, TUSA S, TAGLIACOZZO A. 2006. Fine-tuning
the radiocarbon chronology of the Grotta dell’Uzzo (Trapani). Atti Soc Friuli 15, pg. 17-31.
PIPERNO
M. 1985. Some 14C dates for the palaeoeconomic evidence from the
Holocene levels of Uzzo Cave, Sicily. in MALONE C, STODDART A. A cura
di, Papers in Italian Archaeology IV. B.A.R. Int.Series 244, Oxford
pg. 83-6
La necropoli longobarda di Romans d’Isonzo, è
stata scavata alla fine degli anni ottanta inizi anni novanta. Essa
ha restituito circa 200 sepolture fra longobardi e autoctoni. La
maggior parte dei resti ossei è frammentata, mentre numerose
sono le parti assenti, riducendo in questo modo la possibilità
di prendere delle misure certe. È per questo motivo che si è
ritenuto di ricorrere a delle forme sperimentali di valutazione, al
fine di verificare se sia possibile ottenere dei valori che siano
comparabili con quelli normali. Ad esempio, nei casi di attribuzione
sessuale si stima che, in assenza di quelle ossa che consentono
l’analisi dei parametri primari (cranio, bacino), i caratteri
della morfologia della mandibola possano permettere di comprenderne
la differenza.
La possibilità di misurazione della
mandibola ci ha consentito di inserire queste misurazioni in un range
di valori normali. Questo range include delle aree critiche nelle
quali si pongono i nostri risultati che ci permette di ottenere una
tendenzialità sull’appartenenza sessuale. Sono state
rilevate delle misure osteo-mascellari, a partire dalle quali è
stata determinata tutta una serie di parametri, dei quali alcuni
secondo i protocolli in vigore, ed altri di natura sperimentale. Si è
preso soprattutto in esame l’angolo di apertura dei corpi
mandibolari, l’angolo di base dei rami ascendenti, le distanze
bigoniaca e bicondiloidea. Si è osservato poi il rapporto fra
alcuni di questi dati.
Abbiamo lavorato su circa 30 mandibole
appartenenti a soggetti giovani, di media età e adulti, il cui
sesso era già noto (nell’80% dei soggetti) grazie
all’esame dei segni primari. I parametri dei rapporti ci hanno
aiutato per la valutazione tendenziale del sesso degli individui a
sesso indeterminato.