Populations derived from the Atlantic slaving process provide unique opportunities for studying key evolutionary determinants of current patterns of human cultural and biological variation. São Tomé is a small (832 km2) plantation island located in the heart of the Gulf of Guinea, that remained uninhabited until it was discovered by Portugues sailors around 1470, as part of the systematic exploration of coastal Africa that eventually led to the finding of a maritime passage to India. The island played a crucial role as a slave entrepôt and provided an important stepping-stone in the transference of sugar cane plantation to the Americas. São Tomé is also remarkable for its surprising level of linguistic variability, including two autochthonous creole languages (São-Tomense and Angolar) alongside with the official Portuguese language. Due to its limited geographic dimension, small population size (130.000), high levels of linguistic diversity and relatively recent complex peopling process, São Tomé may be considered an excellent model to assess the microevolutionary impact and bio-cultural implications of demographic movements in regions where, like the Mediterranean area, human migration has been largely associated to networks of maritime trade.
Here, we present an analysis of the genetic structure of São Tomé based on a study design that avoids the use of preconceived ethno-linguistic labels to define genetic sampling units. To this end, we used a sampling strategy encompassing 14 major localities within the island, followed by the sorting of 394 sampled individuals into genetic clusters based on 15 microsatellite loci genotypes, and the comparison of additional phylogeographic informative markers across the inferred genetic clusters (mt-DNA sequences, Y-chromosome and Beta-globin haplotypes, and Duffy blood group variation). We found that, despite the maximum distance between any two sampled sites being less than 50 km, São Tomé has an unusual level of genetic structure that is mainly caused by the grouping of Angolar creole speakers in a separate genetic cluster, which carries a distinct imprint of genetic drift. We suggest that this pattern might have been shaped by a kin–structured founder effect associated with the flight of a patrilineal clan of rebel slaves, who established a remarkably successful maroon community in close vicinity to the plantation complex. Our observation that population discontinuous jumps may arise even in social conditions of coercive massive amalgamation provides an illustration of how human clusters emerge and eventually shape the genetic background of human populations.
This research was supported by Fundação para a Ciência e a Tecnologia (grants POCTI/42510/ANT/2001 to J.R. and SFRH/BD/22651/2005 to M.C.), MIUR (COFIN Grant N° 2003054059 to D.L) and RFO (Università di Bologna Project N° 491 to DL).
A partire dagli anni ‘50 l’attenzione di molti antropologi si è focalizzata sulle nuove possibilità offerte dall'analisi dei gruppi sanguigni, sopratutto in relazione allo studio della biologia delle popolazioni umane. A partire dagli anni ‘70 e più recentemente, dalla metà degli anni ‘90, un numero crescente di antropologi ha privilegiato l’uso di marcatori genetici di natura proteica prima e le tecniche molecolari per lo studio del DNA poi, favorendo l'insorgere del dubbio che le metodologie e le tecniche proprie dell’Antropologia classica, fossero in qualche modo obsolete, o, addirittura, superate.
È mia intenzione dimostrare in questa sede non solo che tali metodologie, in particolare quelle inerenti l'analisi morfologica, sotto molti aspetti non possono, anche oggi, essere considerate superate, ma anche che, in determinati ambiti di studio e a condizione di rispettare rigorosamente specifiche condizioni metodologiche, esse rivestono ancora un ruolo centrale e spesso, non surrogabile con altri approcci metodologici.
Mi sia concessa innanzi tutto, una prima breve considerazione: la morfometria, con le sue innumerevoli specializzazioni e diversificazioni, ha rappresentato l’ossatura portante, sia sotto il profilo teorico che pratico-applicativo, intorno alla quale si è venuta sviluppando l'Antropologia fisica a partire dai suoi esordi ufficiali, nella seconda metà del XIX secolo e per gran parte del XX secolo. A parte il suo uso diretto nell’intento di individuare differenze e similitudini tra singoli soggetti e tra popolazioni, essa ha permeato e permea ancora oggi interi settori della ricerca antropologica: dalla costituzionialistica all’auxologia, dall’Antropologia dello Sport allo studio delle involuzioni fisiche e funzionali legate all’età; dall’ergonometria allo studio delle correlazioni tra nutrizione e stato di salute, sia a livello di singoli che di singoli soggetti, con chiare implicazioni di valutazione diagnostica in svariati ambiti medico-clinici, oltre che in termini igienico-sanitari in campo popolazionistico. Sulla base di tutto ciò quindi, credo non sia errato affermare che la "morfometria" meriti di essere riconsiderata oggi, come un vasto e solido "corpus" metodologico, che offre possibilità di analisi e valutazioni in un ampio spettro di settori disciplinari specifici, oltre che di potenzialità di ordine applicativo, difficilmente realizzabili mediante altri approcci. Non va peraltro dimenticato l'aspetto più squisitamente culturale: mi piace infatti pensare che l'attualità dell'approccio morfologico e morfometrico, sia anche profondamente legata alla loro valenza storica, essendo il loro sviluppo teorico ed applicativo parte integrante dell’evoluzione dell’Antropologia stessa come disciplina scientifica.
Ma ci sono altri motivi più
concreti che rendono ragione della necessità ancora attuale
della morfometria e colgo questa occasione per esporli attraverso
l’analisi di alcuni esempi che rientrano a pieno titolo
nell’esperienza personale di ricerca di questi ultimi anni.
Sostanzialmente mi riferisco alle ricerche sulle modificazioni della
composizione corporea in funzione dell’età. Questo
studio rientra nell’ambito di una serie di ricerche più
ampie intese a definire meglio le condizioni fisiche, psicologiche e
sociali che consentono ciò che è stato definito:
"invecchiare con un elevato standard della qualità di
vita" e che, come si può intuire tenuto conto del "trend"
demografico verso età sempre più avanzate, è di
grande e pregnante attualità per le popolazioni dei paesi
industrializzati, in particolare quelli del così detto
"vecchio" (non a caso!) continente. Grazie a queste
ricerche è stato possibile analizzare centinaia di soggetti di
diverse fasce d’età, attribuibili alle più
svariate tipologie fisiche e fasce sociali.
Poiché le
analisi sono state condotte sia con i metodi dell’antropologia
classica che con le moderne tecniche di analisi della composizione
corporea, che sfruttano il principio della differenza di conduttività
elettrica delle diverse componenti strutturali dell’organismo
umano, si dispone ora di una ampia banca dati che consente inferenze
comparative realistiche sulle reali potenzialità
"diagnostiche" dei due approcci metodologici adottati.
Sulla base dei risultati fino ad ora ottenuti credo si possa
affermare che: a) l’analisi morfometrica classica,
complementata con quella relativa alla definizione della composizione
corporea, rappresenta ancora oggi uno strumento di riferimento di
base in un vasto panorama di esigenze diagnostiche, in particolare in
campo medico-clinico; b) la definizione della composizione corporea
con i moderni metodi di indagine può essere vista
nell’attualità, come la naturale evoluzione
metodologica della morfometria classica alla quale aggiunge il
vantaggio di un livello di risoluzione analitica più fine,
anche sotto il profilo funzionale, cosa che la morfometria
classica da sola, non è in grado di garantire.
Volendo descrivere le fasi storiche e protostoriche del popolamento di un territorio, a partire da dati genetici contemporanei, è imperativo campionare individui che si suppongono rappresentativi delle popolazioni antiche. Individui quindi i cui antenati abbiano abitato detto territorio e che garantiscano di meglio risalire il filo del tempo.
Negli studi più rigorosi, prima di ottenere il DNA di qualcuno, ci si accerta che i suoi quattro nonni vengano dalla regione che si studia, una condizione generalmente ritenuta sufficiente per considerare il donatore come «autoctono». Indubbiamente tale criterio permette di minimizzare i fenomeni migratori più recenti (tre generazioni) che, altrimenti, condizionerebbero negativamente la descrizione di caratteristiche genetiche legate ad un lontano passato. È comunque chiaro che i campioni ottenuti col « criterio dei nonni », così lo chiameremo, risentono di tutte le migrazioni avvenute almeno 4 generazioni fa e che, verosimilmente, hanno alterato i segnali genetici legati alle epoche antiche.
Ancora studente, avevo interrogato alcuni genetisti rinomati per sapere se considerassero il « criterio dei nonni » come sufficiente per studi retrospettivi. Le loro risposte sottolineavano l’importanza delle migrazioni dell’ultimo secolo, legate all’esodo rurale che seguì la rivoluzione industriale, dando per scontata una minor mobilità della popolazione nelle epoche precedenti. Lo studio che illustrerò mi ha permesso di misurare tale presunta stabilità facendo uso dati riguardanti la frequenza dei 9.929 cognomi più correnti dei Paesi Bassi, raccolti in 226 punti di campionamento (città, villaggi) sulla base dell’elenco telefonico.
L’idea era di assegnare un’origine geografica a ciascun cognome in base al luogo in cui la sua frequenza relativa appariva più elevata. Questa operazione, tediosissima con metodi convenzionali, fu automatizzata ricorrendo alle mappe di Kohonen, un metodo derivato dalle ricerche sulle reti di neuroni artificiali. Da un punto di vista visivo tali mappe consistono di una scacchiera in cui le caselle (i neuroni), corrispondono a vettori differenti l’uno dall’altro e a cui, nel corso dell’analisi, saranno associati quei cognomi che loro somigliano. In tale processo ogni cognome è formalizzato come un vettore costituito di 226 componenti, cioè dalla sua frequenza relativa in ciascun luogo campionato. Scegliendo una mappa quadrata di 15 caselle di lato i 9.929 cognomi furono forzati su uno dei 225 neuroni disponibili, ottenendo così delle categorie discrete che raggruppavano quei cognomi aventi una simile distribuzione geografica ma, sopratutto, un identico picco geografico di frequenza relativa, cioè il possibile luogo di origine quando i cognomi furono adottati ai tempi di Napoleone. A ben vedere il metodo di Kohonen permette di realizzare, a partire da dati cognonimici contemporanei, una specie di censimento a posteriori che, secondo l’equazione « 1 cognome = 1 famiglia », si è dimostrato ben correlato coi dati storici del primo censimento ufficiale dei Paesi Bassi (1830).
Il passo seguente è consistito nella verifica di quanti utenti del telefono, aventi un cognome specificamente originatosi in una delle 12 province dei Paesi Bassi, vi risiedevano effettivamente. In questo modo era possibile ottenere, provincia per provincia, la percentuale di individui i cui antenati vivevano nella stessa zona ai tempi di Napoleone, circa 8 generazioni fa. Il risultato, che oscilla attorno al 20%, dimostra come dopo due secoli ben pochi sono i discendenti che non si sono spostati in un’altra provincia. Il citato « criterio dei nonni » sembra dunque assai inadeguato al fine di individuare i discendenti dei primi abitatori di un territorio.
La mia proposta è che i cognomi, studiati colle mappe di Kohonen, possano rappresentare uno strumento efficace per identificare gli « pseudoautoctoni », essendo il prefisso « pseudo » motivato dal fatto che non è possibile escludere che gli antenati di un individuo, avente un cognome tipico della regione che abita, vi si fossero stabiliti appena prima l’adozione dei cognomi.
Associando il metodo descritto al campionamento del cromosoma Y (trasmesso come i cognomi) le strutture e differenze genetiche, livellate da migrazioni recenti che hanno perturbato le tracce di antichi processi insediativi e demografici, potrebbe essere meglio identificate. Un’aspettativa confermata dal gruppo di ricerca diretto dal professor Davide Pettener dell’università di Bologna il quale, applicando la metodologia proposta, ha potuto riconoscere strutture genetiche altrimenti invisibili.
Articolo :
Manni F, Toupance B, Sabbagh A, Heyer E. 2005. Spatial pattern of surnames: a new approach to improve Y-chromosome genetic sampling. Am J Phys Anthr 126:214-28.
Hypotheses are scientific instruments that allow us to establishing problems. Thus the scientific knowledge advances. The record obtained through the scientific method leads us to the establishment of hypotheses in Archaeology and we are enable to verify or to falsify what has been announced. There are no questions without record, there are no answer without hypothesis.
Of the three hypotheses proposed in the debate on the first settlement of Europe at ending of last century: young Europe, mature Europe and old Europe; only remains to contrast this last one. This hypothesis proposes the presence of genus Homo in our subcontinent 1.8 million years ago.
Findings and publication of Dmanisi’s discoveries, placed at the doors of Europe, have become manifest the hominids’ presence out of Africa in the beginning of Pleistocene.
New investigations that are held allow ensuring the presence of genus Homo with an antiquity of 1.4 million years at meridional Europe and with an antiquity of 1 million years at the north zone.
Discoveries of Pont de Lavaud (France), and Pirro Nord and Monte Poggiolo (Italy), and works in Fuente Nueva 3, Barranco León and Sima del Elefante-Atapuerca (Spain) allow us asserting that, between 1 and 1.4 million years, populations of hominids from Africa and Asia are already settled in south Europe.
With a chronology of 1 million years we have document sites of Gran Dolina Cave (Atapuerca, Spain), Pakefield (United Kingdom), Vallonnet (France) and Ceprano (Italy). At this time, 1 million ago, it is possible that hominid had settled in all European continent.
Now, only the hypothesis of the old Europe remains to be contrast. In order to deal with this problem thoroughly and achieving results to short and half term, we must develop a strategy to advance empirically, sistematically and strongly.
Thus we propose that the most important is:
Work in broad stratigraphical series that allow to observe evolution and development of human impacts. We must dig in karstic fillings to find base levels and date them with diverse methods.
We had work with regional fluvial and lacustrine series to understand the settlement of these first hominids, although impacts be occasional.
We should coordinate a project about the origins of our genus in order to establish protocols that permit answer problems and contrast hypothesis.
In an immediate future, it would be ideal to establish a network of European investigation to avoid fragmentary work.
Build a structure of inter-institutional investigation to advance in the knowledge of dynamics of the first peoplement to theoretic and empiric level.
I risultati raggiunti con gli scavi e con le ricerche condotte sul Neolitico antico della Sardegna nell’ultimo ventennio portano a ricostruire sia pure per grandi linee un quadro culturale ampio e ricco di elementi che, mentre inseriscono la Sardegna nel contesto del Mediterraneo occidentale, confermando il suo ruolo centrale nello sviluppo del Neolitico, nello stesso tempo suggeriscono nuove problematiche, aprendo nuovi scenari sul modello di popolamento dell’Isola.
L’incremento notevole del numero dei siti individuati finora (il più alto tra le regioni ialine), infatti, ripropone il problema del processo di neolitizzazione dell’Isola, soprattutto alla luce dei contesti epipaleolitici finora individuati (Grotta Corbeddu, Porto Leccio, Grotta Coloru). Nel complesso, comunque, si riscontrano carenze di dati di riscontro, dovute soprattutto ai fenomeni di discontinuità sul piano cronologico e stratigrafco
Le linee dello sviluppo successivo fanno intravedere legami stretti con l’area tirrenica in una prima fase, estesi anche al Midi ed alla penisola Iberica in una seconda fase ed all’Italia settentrionale nella terza.